Battaglie In Sintesi
27 settembre 489
Nacque intorno al 454 da Teodemiro, uno dei tre fratelli della stirpe degli Amali, che reggevano gli Ostrogoti, stabiliti allora nella Pannonia e nel Norico quali foederati dell'impero. A garanzia di un trattato, per il quale gli Ostrogoti si obbligavano a difendere le frontiere con un annuo stipendio, fu mandato (462) a Costantinopoli quale ostaggio. Qui acquistò una certa cultura, sebbene sia dubbio se sapesse scrivere, o se intendesse la lingua latina. Ma soprattutto conobbe i pregi e le debolezze della società romana e i segreti della politica imperiale, e affinò il suo senso politico. Ritornato da Costantinopoli (472), atteggiandosi a vendicatore dei Bizantini, vinse e uccise il re dei Sarmati, ma tenne per sé Singidunum (Belgrado), che questo re aveva tolto all'impero. Succeduto al padre per designazione di lui morente e per elezione del popolo (474), condusse i suoi nella Mesia inferiore (Bulgaria), ponendo sede a Novae (Sistova) sul basso Danubio. Combatté quì una lunga e varia lotta con un altro capo di Ostrogoti, Teoderico di Triario, detto Strabone, e, come questo, ebbe parte nelle contese che laceravano l'impero: aiutò anzi (477) Zenone a risalire sul trono e ne ebbe il titolo di patrizio e l'adozione a figliolo. E già forse dal 479, guardava all'Italia, occupata allora da Odoacre, e offriva a Zenone di ricondurvi lo spodestato imperatore Nepote. Non piacque a Zenone questo patteggiare col barbaro; e Teodorico rimase più anni ancora in Oriente, dove la morte di Strabone gli lasciava libero il campo, prima nemico di Zenone e devastatore dell'Epiro, poi protettore di lui, magister utriusque militiae, console (484), onorato del trionfo e di una statua innanzi al palazzo imperiale; e ancora ribelle, saccheggiatore della Tracia, minaccioso alla stessa Costantinopoli (487). Alla fine si trovarono d'accordo, Teodorico nel chiedere di essere mandato a combattere Odoacre e a "liberare" l'Italia, e Zenone nel consentire o nell'incoraggiare la spedizione; se il barbaro desiderava forse di vendicare la sconfitta dei Rugi, rivoltisi a lui contro l'assalto di Odoacre, e certo voleva per il suo popolo sede più stabile e, relativamente, più ricca della già devastata Balcania, non meno bramava l'imperatore di levarsi d'accanto un così pericoloso vicino. L'impresa fu deliberata dall'assemblea generale dei Goti, e partirono, negli ultimi mesi del 488, innumerae catervae, forse trecentomila, Ostrogoti per la maggior parte, con un forte nucleo di Rugi e nuclei minori di altri barbari, con donne, vecchi, fanciulli, carri, che servivano d'alloggio, suppellettili, arnesi da lavoro. Ma il rex delle gentes barbariche trasmigranti in Italia si presentava insieme come il patricius, cioè l'inviato dell'imperatore a restaurarvi le sorti della romanità. Vinti all'Ulca i Gepidi e i presidî posti qui da Odoacre, Teodorico disperse le milizie di questo all'Verona, e il passaggio del fiume (28 agosto 489) considerò come inizio ufficiale del suo dominio sull'Italia. Vinse ancora a Verona (30 settembre), dalla quale città, forse per il valore spiegato nella battaglia, ebbe il nome nella saga tedesca. Vide allora volgersi a lui i più dei Romani e darglisi la maggior parte delle stesse milizie di Odoacre, che si rinchiuse in Ravenna. Poi ebbe di nuovo contro a sé questi barbari e molti Romani, delusi forse i primi nella speranza di spartire con i nuovi venuti le terre italiane, già scontenti gli altri dei pretesi liberatori. Dovette allora ritrarsi a Pavia, in grandi strettezze; poi, con l'aiuto di una discesa di Visigoti, riprese l'offensiva, batté sull'Adda Odoacre (11 agosto 490), lo costrinse a chiudersi di nuovo in Ravenna, mentre infuriava per tutta Italia la guerra fra i barbari e calavano dalle Alpi torme di Borgognoni a predare. Quando Odoacre piegò, dopo tre anni d'assedio, Teodorico gli consentì di rimanere capo dei suoi soldati e dividere con lui il dominio dei Romani (fine di febbraio 494); ma, entrato in Ravenna (5 marzo), lo accusò di tendergli insidie e lo uccise (15 marzo 494). Tutti i parenti del vinto e i suoi comites, dovunque fossero in Italia, ebbero la stessa sorte; ai Romani partigiani di lui fu tolta la libertà di disporre dei loro beni; ma la dura sentenza fu mitigata per l'intervento dei vescovi di Pavia e di Milano, restando esclusi dal perdono solo i capi dell'opposizione. Ancora prima della resa di Ravenna, Teodorico s'era dato pensiero di precisare la base giuridica del suo dominio. E aveva mandato all'imperatore, o fatto mandare dal senato, Fausto Negro, uno dei primi dell'alta assemblea, a chiedere la "veste regia". Non ottenne il consenso dell'imperatore, forse perché non volle promettere a questo l'appoggio nella contesa religiosa che, dopo la pubblicazione dell'Henoticon di Zenone favorevole ai monofisiti (482), divideva l'Impero dalla Chiesa romana. Ma, dopo l'ingresso in Ravenna, fu, senz'attendere l'ordine imperiale, confermato re dai suoi Goti, riconosciuto cioè come legittimo rappresentante della sovranità sul paese conquistato; assunse allora il titolo di dominus e rivestì la porpora "come già sovrano dei Goti e dei Romani" (Jordanes, Get., 295). Fu quindi in conflitto più anni con la corte bizantina e tenuto da questa come "tiranno". Nel 498, per opera del patrizio Festo, seguì un accordo, per il quale l'imperatore rimandò gli ornamenta palatii, inviati già da Odoacre nell'Oriente, riconoscendo l'autorità personale di Teodorico Questi rimaneva in teoria subordinato, non sappiamo bene con quale titolo, all'imperatore. Ma in realtà egli pensava ormai distinte le due respublicae, l'orientale e l'occidentale; nell'imperatore non ammetteva altro primato fuor che morale, a sé attribuiva per volere divino quello stesso potere illimitato, che il diritto romano riconosceva all'imperatore, e qualificava il suo come Romanum imperium. La nomina dei consoli, dei patrizî, dei senatori era fatta da lui senz'attendere designazione o conferma imperiale; l'erario pubblico era confuso col tesoro privato del re. Se Teodorico non promulgò leggi, ma editti, non era però in questi alcun accenno al supremo potere legislativo dell'imperatore; le monete avevano bensì, quelle che noi conosciamo almeno, l'effigie imperiale, ma questo dipendeva soprattutto dalla necessità di assicurarne il corso nei paesi orientali, da cui gli occidentali dipendevano commercialmente. Del resto, medaglie commemorative, statue, iscrizioni salutavano Teodorico come solo dominus, un'iscrizione, anzi, come victor ac triumphator semper Augustus; Procopio scrisse ch'egli aveva titolo di rex, cioè di capo barbarico, ma di fatto era vero imperatore. Teodorico si vantava che il suo regno fosse copia dell'unico impero; venendo a Roma nel 500, promise al popolo di osservare le disposizioni prese in altri tempi dagl'imperatori e, come già questi, distribuì doni e offerse spettacoli; conquistata la Provenza, la disse restituita all'antica libertà, cioè alla sovranità di Roma. E conservò infatti le forme dell'antico ordinamento romano, con la gerarchia delle dignitates alla corte di Ravenna e nelle provincie, e diede, generalmente, a Romani le magistrature civili. Ma la romanità del linguaggio è attribuita al re barbaro da Cassiodoro Senatore e da Ennodio, ed è difficile dire fino a qual punto lo scrittore delle lettere del re e il suo panegirista ne interpretassero l'intimo pensiero. E alcune delle più alte magistrature civili, come quella di comes patrimonii, o amministratore del patrimonio regio, e di praepositus sacri cubiculi, o capo della casa del re, erano tenute non di rado da barbari; e il comitatus, raccolto intorno al re, poté avere l'antico nome di consistorium, ma era costituito in parte di Goti; e i saiones, anch'essi goti, rappresentavano l'ingerenza diretta del re in tutti i rami della pubblica amministrazione e non di rado si sostituivano, per volere di lui o per usurpazione, alle ordinarie magistrature; Roma stessa fu per un certo tempo sottoposta all'autorità eccezionale di un comes goto. La giustizia era amministrata in nome del re, giudicavano delle cause fra Romani cognitores romani secondo la legge; delle cause fra barbari i loro capi militari secondo le consuetudini barbariche, stabilendosi così un sistema di leggi personali, diverse da Romani a barbari e tra gli stessi gruppi di barbari. Nelle cause miste erano applicati gli editti del re, che avevano carattere territoriale e valevano ugualmente per barbari e Romani; nei casi non contemplati dagli editti, si può ritenere che fosse applicata la legge romana, adattandola alle circostanze nuove; giudicava tuttavia un comes goto, sia pure avendo al fianco un assessor romano, con intrusione dell'elemento militare nel campo della giustizia, la quale intrusione avveniva talvolta anche in casi di controversie fra soli Romani. E il re poteva poi, o per ricorso di una delle parti, o per iniziativa spontanea, avocare a sé la causa, assegnarla alla cognizione di giudici delegati, prescrivere che si desse sentenza non secondo legge, ma secondo equità, sospendere la procedura, cassare il giudizio. Ai Goti rimanevano tutti gli uffici militari, dai quali i Romani, in via normale, erano esclusi. E a loro, fino dall'inizio della conquista, era stato distribuito il terzo delle terre; e, da prima, sembra, solo quelle confiscate ai soldati di Odoacre; ma certo, almeno più tardi, furono soggette al vincolo delle tertiae anche le terre di privati romani, non nel senso che si venisse a un'effettiva divisione, bensì a un'assegnazione teorica di un terzo del fondo, alla quale corrispondeva il diritto di percepire un terzo dei frutti. La parte non assegnata ai barbari era poi colpita da imposizioni, che andavano di regola al fisco, ma potevano anche essere attribuite dal re a singoli personaggi goti, posti in relazione diretta col contribuente romano. Si costituivano a questo modo due società parallele e nettamente distinte; il re protestava di volere che esse convivessero in pace, mostrava anche di apprezzare la superiorità della civilitas romana sulla barbarie gotica; ma non pensava a fusione tra Romani e Goti e men che mai a romanizzazione dei Goti, né altrimenti concepiva le relazioni fra i due popoli, se non come quelle di un esercito di armati in mezzo a una popolazione senz'armi. E, anche se egli attribuiva a quelli la funzione di difensori della civilitas, nel fatto appariva, come è detto espressamente da Ennodio, che i barbari erano i vincitori e i Romani i vinti, i subiugati. Fu tuttavia l'età di Teodorico, in paragone a quella che la precedette e la seguì, età di rifiorimento economico, o almeno di arresto nella decadenza; la lunga pace permise la tranquilla coltivazione dei campi e la bonifica di terreni, specialmente nelle Paludi Pontine, onde ebbero incremento la popolazione rurale e la produzione agraria e diminuì il prezzo delle derrate, quantunque non manchino memorie di devastazioni di terre, di requisizioni forzate, di prestazioni coattive e gravose. L'industria e il commercio, posti sotto il diretto controllo dello stato e gravati da pesi, che l'arbitrio dei riscotitori aumentava, non ebbero invece alcun progresso sensibile. Anche la cultura romana diede allora un nuovo bagliore della sua fiamma inestinguibile. Il re provvide al restauro degli antichi edifici di Roma, costruì, con l'opera di artisti romani, edifici nuovi a Verona, a Pavia, soprattutto a Ravenna, dove innalzò la basilica, mirabile per i suoi musaici, che volle dedicata a Gesù Cristo ed è oggi S. Apollinare Nuovo, e il battistero ariano e il palazzo magnifico, ora interamente distrutto, e il mausoleo famoso per sua sepoltura. E, se non promosse direttamente le lettere, se anzi vietò ai suoi Goti di mandare i figli alle scuole, mostrò tuttavia favore a dotti Romani: Cassiodoro Senatore fu questore e per più anni segretario del re, console (514), maestro degli uffici (523); Severino Boezio, filosofo e scienziato, oratore e poeta, fu console anch'egli (510) e maestro degli uffici (522) e celebrò le lodi del re, al quale Ennodio di Pavia rivolgeva l'ampolloso suo Panegirico. Abile e per lungo tempo fortunata fu la politica estera di Teodorico Questo barbaro, che era vissuto nella giovinezza fra le armi e con le armi aveva acquistato l'Italia, non amò la guerra; anzi non trasse più la spada dal fodero, lasciando, ove occorresse, ai suoi generali di combattere per lui. Con l'Impero d'Oriente, dopo i primi conflitti, stette in pace, finché la necessità di assicurare le frontiere non lo obbligò nel 504 ad aggiungere alla Penisola, all'Istria, al Norico, alle Rezie, che formavano il regno fin dall'inizio, Sirmium, alla confluenza della Sava col Danubio, "limite antico d'Italia"; solo per questo affrontò una guerra con i Bizantini, che, risoltasi per terra con la vittoria dei Goti, si prolungò più anni per mare con devastazioni piratesche dei Greci sulle coste italiane, finché, intorno al 510, fu ristabilita la pace. Sulle gentes barbariche affermò la propria superiorità, come signore di Roma e d'Italia; ma la volle attuare per mezzo di relazioni di parentela, che stringessero intorno a lui i diversi re barbari: diede una figlia al re dei Visigoti e un'altra al figlio del re dei Burgundi, e una sorella al re dei Vandali, e una nipote a quello dei Turingi, e sposò egli stesso una sorella di Clodoveo re dei Franchi e accolse come figlio d'armi il re degli Eruli; per più anni apparve quasi capo di una grande federazione barbarica. Ruppe questo equilibrio di forze la guerra che Clodoveo, forse eccitato dall'imperatore bizantino, mosse al genero di Teodorico, il re dei Visigoti Alarico II, che fu vinto e ucciso a Vouillé (507). Teodorico mandò allora eserciti, che vinsero i Franchi ad Arles (509), riunì all'Italia la Provenza, alla quale diede amministrazione romana, e assunse dal 511 il governo della Spagna in nome del giovine nipote Amalarico, affidandolo a Teudis, "armigero" suo. Il dominio di lui era così notevolmente ampliato; ma il disegno suo, di legare a sé tutte le gentes, era fallito. Più tardi anche i Burgundi si staccarono dall'amicizia di lui, ch'ebbe scarso compenso nell'acquisto di una striscia di terreno a nord dell'Isère; e si staccarono i Vandali, senza che egli osasse nemmeno vendicare l'uccisione della sorella (523); lo stesso Teudis nella Spagna assumeva qualche atteggiamento d'indipendenza. Il re invecchiava; e la stessa continuità della dinastia non appariva sicura. Non avendo figli maschi, egli diede nel 515 in sposa la figlia Amalasunta a Eutarico, discendente degli Amali, ma vissuto nella Spagna, e ottenne a questo dall'imperatore l'adozione a figlio e la dignità di collega dell'imperatore stesso nel consolato per il 519, come a riconoscimento del suo diritto alla successione del re. Ma il carattere di Eutarico, assai ostile ai Romani, rendeva più grave la difficoltà di mantenere nel regno la convivenza pacifica di due società così diverse e provvedute di forze così disuguali: la parte più intollerante dei Goti guadagnava terreno, crescevano le violenze a danno dei vinti, né gli sforzi del re riuscivano sempre a impedirle o a punirle. La questione religiosa s'intrecciava con la politica. Ariano e re di un popolo ariano, Teodorico aveva rispettato la religione dei vinti, conservato i privilegi della Chiesa, accolto le preghiere di pontefici e di vescovi, tanto più che la madre sua Ereleuva era cattolica. Non s'era però astenuto dall'ingerirsi alcuna volta in questioni ecclesiastiche. Chiamato ad arbitro nella duplice elezione pontificale del 498, aveva dato dapprima giudizio favorevole a Simmaco, eletto dalla maggioranza, e da questo era stato accolto a Roma con grande onore (500). Ma, scoppiata poco dopo una nuova contesa per le accuse mosse a Simmaco da una fazione, che aveva per sé quasi tutto il senato e parte del clero romano, aveva citato a Ravenna Simmaco, mandato a Roma il vescovo di Altino come visitatore, convocato, con l'assenso di Simmaco, un sinodo; e, pure dichiarando che non toccava a lui decidere in materia ecclesiastica, aveva insistito perché questo pronunziasse un giudizio, e privato intanto il papa delle chiese e dei beni. E anche quando (23 ottobre 501) il sinodo, rimettendo la causa del pontefice al giudizio divino, lo aveva dichiarato quanto agli uomini libero dalle accuse e rimesso nella pienezza dei suoi poteri, il re aveva consentito che l'avversario di lui venisse a Roma ed esercitasse fra i tumulti le attribuzioni pontificali, e aveva atteso quattro anni prima di far restituire al pontefice le chiese e il patrimonio. Dopo d'allora, tuttavia, le relazioni fra Teodorico e la Chiesa di Roma e il popolo cattolico non erano state per più anni turbate; anzi il re, forse nell'intento di assicurare la pacifica successione nel regno suo, aveva cooperato alla fine dello scisma, che separava la Chiesa greca dalla romana (518). Ma questa riconciliazione, abbattendo la barriera che aveva diviso per più anni i Romani d'Italia dall'impero, portava quelli di loro, ch'erano più intolleranti del giogo barbarico, a vedere nell'imperatore orientale la sola speranza per la restaurazione della romana libertas e dava agli ariani più accesi, quale era Eutarico, buon pretesto per accentuare l'avversione, come alla stirpe, così alla fede romana. La morte di Eutarico parve riavvicinare Teodorico ai Romani: Boezio fu magister officiorum e due figli suoi consoli nel 522. Ma l'accusa fatta da Cipriano, un romano goticizzante, al patrizio Albino, di avere relazioni con l'imperatore orientale, coinvolse Boezio, che aveva preso le difese di lui, come d'altri Romani perseguitati dai Goti, e minacciò l'intero senato. Questo, intimidito, abbandonò alla propria sorte Boezio, che fu chiuso in carcere, probabilmente nel 523, sotto l'accusa di arti magiche e condannato per giudizio del senato alla confisca dei beni e all'esilio. La pubblicazione (523 o 524) di un editto dell'imperatore Giustino contro pagani, ebrei ed eretici, che erano esclusi dai pubblici uffici, anche se lasciava all'arbitrio dell'imperatore la sorte dei Goti, inaspriva la contesa fra ariani e cattolici. Teodorico pigliò le difese dei suoi correligionarî e, mentre allestiva una flotta col duplice fine di rendere l'Italia indipendente dal commercio bizantino e d'intimidire l'imperatore, costrinse il pontefice Giovanni I a recarsi a Costantinopoli, imponendogli di perorare la causa degli ariani. Le accoglienze assai onorevoli fatte al papa in Oriente (524-25) e l'insuccesso almeno parziale della sua missione accrebbero i sospetti del re, il quale si sfrenò ora a crudeltà; fece uccidere Boezio, che poté essere così considerato quale martire della fede, e il suocero di lui Simmaco, capo del senato; e tenne prigione a Ravenna il papa, che ben presto venne a morte (18 maggio 526) e fu venerato fin d'allora come victima Christi. Il re cercò d'imporre come successore persona a lui grata; ma contemporaneamente ordinò che le basiliche cattoliche fossero invase dagli ariani, mentre ai Romani era tolto fino l'uso del coltello. Morendo poco appresso, il 30 agosto 526, Teodorico raccomandò ai Goti di rispettare come re il piccolo nipote Atalarico, di amare il senato e il popolo romano, di placare l'imperatore d'Oriente e tenerlo propizio dopo Iddio. Egli riconosceva così il fallimento dell'opera sua, che non era riuscita a creare una tale realtà politica da rendere sicura, nell'accordo fra i due popoli e nella stabilità nelle relazioni con l'Oriente, la continuità della dinastia e del regno stesso dei Goti in Italia. Il giudizio assai diverso dato sopra di lui dai contemporanei, il contrasto tra le leggende cattoliche e romane, che lo fanno morire tra i rimorsi o essere rapito vivente dal demonio e precipitato nel cratere di Lipari, e la saga germanica, la quale canta il giusto e savio e prode Dietrich von Bern, sono prova non solo della divisione profonda tra Romani e barbari, ma della contraddizione, in cui si aggirò, inevitabilmente forse, ma certo vanamente, tutta l'opera di Teodorico.
L'effetto di quel primo e splendido successo(Isonzo 489) pei Goti fu ch'essi tutti dimenticarono le noje ed i dolori pel passato sofferti e, vedendosi ormai schiuse davanti le porte della terra promessa, altro non chiesero che di potere con celerità per entro alla medesima avanzarsi e quanto prima distruggere chi ad essi ne contrastava la occupazione. Teoderico poi tanta importanza al fatto di quel giorno attribuì, che ne datò il principio della sua dominazione in Italia. Dopo la battaglia quella parte del popolo, che, durante la medesima, era rimasta al di là del fiume, lo passò e la marcia venne ripresa, nell'ordine fino allora tenuto, per la strada, che attraversava la Venezia passando per le città di Aquileja, Concordia, Opitergio (Oderzo), Tarvisio (Treviso), Vicenza e Verona. Presso quest'ultima intanto riusciva Odovacre a fermare le fuggenti sue schiere ed a riunirle, per offrire al nemico una seconda battaglia nel così detto Campo Veronese, cioè in quella campagna, che per gran tratto si distende sulla sinistra sponda dell'Adige all'oriente della città. I Goti giunsero in vista del suo accampamento una mattina fra i giorni 27 e 30 di settembre e la battaglia ebbe tosto principio.
Ma, come le condizioni dei combattenti non s'erano mutate nello spazio d'un mese, oppure si erano mutate nel senso che i Goti erano diventati più arditi e meno risoluti quelli di Odovacre, così anche questa volta la vittoria non istette a lungo in forse tra i due. Le schiere di Odovacre dopo una breve lotta piegarono e, seco trascinando il loro capo, disordinate fuggirono verso la porta orientale della città, inseguite sempre dai vincitori, che ne fecero strage. Nè furono i soli Goti che in quel giorno cagionarono ad Odovacre danni gravissimi, che l'Adige fu loro alleato, avendo nelle sue acque trovata la morte molti dei fuggenti, che aveano voluto guadagnare a nuoto la opposta sponda.
Allora Odovacre s'appigliò ad un nuovo piano di difesa, giusta il quale egli stesso con quelle truppe, di cui credeva potersi meglio fidare, si sarebbe ritirato verso il centro della penisola, a Roma; le rimanenti sue truppe e gli alleati Burgundi sarebbero andati, sotto il comando del maestro de'militi Tufa, nella Liguria, dove, secondo ogni probabilità, si sarebbe in seguito diretto Teoderico. Già ai 30 di settembre uscirono da Verona Odovacre e Tufa e vi entrò Teoderico festosamente accolto dai cittadini. Non così accolsero i Romani Odovacre. Quand'egli fu presso a Roma, ne vide chiuse le porte; mandò perchè gli venissero aperte e gli fu risposto col mostrargli il popolo armato in sulle mura. Che fare? Per tentare un assalto - temeva di non aver forze sufficienti e quindi neppure per intraprendere un assedio; oltredichè quello sarebbe stato un rischio inutile, questo una perdita di tempo, che gli avrebbe potuto nuocere assai. Egli decise di ritornare su'suoi passi, dopo di aver messo a ferro ed a fuoco tutto che si trovava vicino alla città ribelle, e d'andare a rinchiudersi in Ravenna, nella quale, prima di partire per l'Isonzo, aveva lasciato un discreto presidio.