Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Treviglio

15 aprile 1509

Il comandante francese

Charles d'Amboise, Seigneur de Chaumont (1473-11 febbraio 1511)

Nobile francese, governatore di Milano (1503-1511) durante il regno di Luigi XII e comandante durante la guerra della Lega di Cambrai. Nato a Chaumont-sur-Loire, nella casa di Amboise, Carlo era il nipote del cardinale Georges d'Amboise, primo ministro del re Luigi XII di Francia e figlio di Carlo I d'Amboise, governatore della Champagne e della Borgogna. Charles d'Amboise fu governatore di Parigi, del Ducato di Milano, della signoria di Genova e della provincia di Normandia. Nel 1501 fu nominato luogotenente generale francese e poi vicerè per la Lombardia, divenendo amico di Leonardo da Vinci durante il suo soggiorno a Milano. È stato Gran Maestro di Francia dal 1502 al 1504, quando divenne maresciallo di Francia. Dal 1508 al 1510 fu anche ammiraglio di Francia e nel 1507 soppresse una rivolta a Genova. Nella battaglia di Agnadello, 1509, comandò l'avanguardia francese. Nel 1510 prese il comando delle forze francesi che combattevano in Romagna contro il papa Giulio II, per il quale fu scomunicato; non riuscì a impedire a Giulio di catturare Bologna e Mirandola, e morì di malattia a Correggio, durante la campagna del 1511. Suo figlio Giorgio morì nella battaglia di Pavia nel 1525.

La genesi

Tatto da: Storia delle Repubbliche italiane del Medio Evo: 3 - Simondo Sismondi, Prato 1864
Fino dall'anno 1504, Lodovico XII, Massimiliano e Giulio II avevano progettata la spartizione degli stati di Venezia, divisamento di cui ponevano le fondamenta nel trattato di Blois del 22 di settembre; ma la versatilità di Massimiliano, la diffidenza di Giulio II, la gelosia di Ferdinando avevano allora salvata la repubblica dalle trame ordite contro di lei. Il fiero dispetto di Massimiliano, dopo le sconfitte riportate in principio del 1508, lo indusse a ritentare le stesse negoziazioni ed a ricercare l'alleanza de' Francesi, da lui abborriti, per vendicarsi coll'aiuto loro della repubblica, da cui era stato umiliato. La tregua di tre anni che il re de' Romani aveva di fresco conchiusa colla repubblica di Venezia e coi suoi alleati, non comprendeva il duca di Gheldria, allora in guerra con lui e col suo abbiatico. Era questo duca protetto dalla Francia, e, sotto protesto di trattare della pace di lui, si venne ad un abboccamento in Cambrai tra il cardinale d'Amboise, ministro e confidente di Lodovico XII, e Margarita d'Austria, figliuola dell'imperatore Massimiliano e vedova del duca di Savoia. Nè il cardinale e nè la principessa intieramente fidavano i loro committenti. Margarita accoppiava un senno virile a tutta la femminile accortezza; il cardinale l'aveva giurata a Venezia fin dal tempo ch'egli si era trovato a Roma in occasione dei due conclavi; cosicchè non aveva voluto nemmeno ascoltare Stefano Poncher, vescovo di Sens, quale rappresentava nel consiglio del re quanto la conservazione di Venezia importasse per la difesa del Milanese, quanto la Francia si fosse pochi anni prima pentita di aver chiamato un potentato straniero a spartire il regno di Napoli, e quanto fosse da temersi che la progettata divisione della Lombardia la facesse cader tutta intiera sotto il dominio della casa d'Austria. Il cardinale d' Amboise e Margarita d'Austria, essendosi recati a Cambrai sotto colore di trattarvi la pace del duca di Gheldria, non ammisero a parte delle loro trattative nè gli ambasciatori di Ferdinando il Cattolico, sebbene Lodovico XII avesse comunicati a questo monarca i suoi disegni sopra Venezia nell'abboccamento di Savona, e gli avesse offerto come prezzo della sua cooperazione le città marittime della Puglia, che i Veneziani tenevano in pegno per sicurtà del danaro somministrato alla casa d'Aragona; nè il nunzio del papa, sebbene Giulio II, per ricuperare le sue città di Romagna, fosse stato il primo a suggerire il pensiero di questa confederazione. Il cardinale e la principessa deliberarono soli e senza assistenti, e le loro negoziazioni diedero luogo a cosi fiere altercazioni, che Margarita scriveva: 'Poco mancò che il signor legato ed io non ci acciuffassimo pei capelli.' Tuttavia queste negoziazioni furono in breve tempo terminate con due trattati sottoscritti il 10 di dicembre del 1508. Col primo le quistioni del duca di Gheldria coll'arciduca Carlo vennero conciliate, siccome ancora quelle intoruo alla dipendenza de' feudi dei Paesi Bassi della corona di Francia; ed in conseguenza Massimiliano si obbligò di dare a Lodovico XII una nuova investitura del ducato di Milano. Col secondo fu stipulata la lega d'Europa contro Venezia, lenendosi per certi i due plenipotenziari di ottenere la ratifica degli altri principi, sebbene il nunzio del papa, interpellatone, ricusasse la sua, per mancanza di formale istruzione. Questo secondo trattato, che viene propriamente indicato col nome di Lega di Cambrai, portava: che, avendo l'imperatore e il re di Francia determinato, a richiesta di Giulio II, di fare alleanza per muovere guerra ai Turchi, avevano pattuito preventivamente: « di far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni che i Veneziani hanno arrecato non solo alla Santa Sede apostolica, ma al santo romano Imperio, alla casa d'Austria, ai duchi di Milano, ai re di Napoli ed a molti altri principi, occupando e tirannicamente usurpando i loro beni, i loro possedimenti, le loro città e castella, come se cospiralo avessero per il male di tutti. Per tutte queste ragioni, soggiungono i monarchi contraenti: a noi abbiamo trovato non solo utile ed onorevole, ma ancora necessario, di chiamar tutti ad una giusta vendetta per ispegnere, come un incendio comune, la insaziabile cupidia già dei Veneziani e la loro sete di dominare.» Dopo questo preambolo, il trattato porta che i confederati muoveranno di comune accordo a danno de' Veneziani per costringerli a rendere alla Santa Sede Ravenna, Cervia, Faenza, Rimini, Imola e Cesena; all'Imperio Padova, Vicenza e Verona; alla casa d'Austria Roveredo, Treviso e il Friuli; al re di Francia Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, la Ghiara d'Adda e tutte le dipendenze del ducato di Milano; al re di Spagna e di Napoli, Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli, Mola e Polignano con tutte le città che avevano ricevute in pegno da Ferdinando II; al re d'Ungheria, se entrava in quell'alleanza, tutte le città della Dalmazia e della Schiavonia che avevano già un tempo appartenuto alla corona di lui; al duca di Savoia il regno di Cipro, e alle case d'Este e di Gonzaga i possessi che la repubblica aveva conquistati a danno de loro antenati. Tanta fu l'inavvertenza o l'ignoranza con cui procedettero i plenipotenziarii in questo trattato, che fra le città che i Veneziani dovevano restituire al papa annoverarono Imola e Cesena, le quali da lungo tempo erano state cedute al papa. Per rispetto ai potentati che nulla poteano pretendere delle spoglie di Venezia, come l'Inghilterra, fu pattuito che queste ancora potrebbero venire ammesse a parte di quell'alleanza, purchè ne facessero la domanda avanti che fosse spirato il termine di tre mesi. Quanto ai modi d'esecuzione, era convenuto con questo trattato che il re di Francia assalirebbe in persona i Veneziani il primo giorno d'aprile, e che nello stesso tempo il papa li fulminerebbe con tutte le censura ecclesiastiche, e richiederebbe di soccorso l'imperatore come avvocato della Chiesa. Questa domanda doveva disciogliere Massimiliano dagli obblighi contratti pochi mesi avanti, e dargli motivi per assaltare i Veneziani, ciò ch'egli prometteva di fare in persona quaranta giorni dopo ch'e' fossero stati assaliti dal re di Francia. Nello stesso tempo Ferdinando e gli altri alleati dovevano, ciascuno per parte sua, impadronirsi delle provincie loro assegnate. Ognuno dei confederati doveva operare per conto proprio e badare alle proprie conquiste senz' obbligo di assecondare i suoi compagni. I confederati non furono paghi nel pattuire la spartizione di uno stato inverso al quale erano stretti da solenni - trattati; per mandare ad effetto con maggior sicurezza quest'opera d'iniquità essi pensarono essere d'uopo assalire alla sprovveduta i Veneziani, e fermarono di non permettere che la repubblica avesse alcun sentore del conchiuso trattato. Contribui assai a nascondere l'operato de confederati la convenzione fatta nello stesso tempo col duca di Gheldria: i plenipotenziarii si affrettarono di partire da Cambrai per non dare sospetto all'Europa; e avendo l'ambasciatore veneziano avuto un qualche sentore del turbine che minacciava la sua patria, Lodovico XII rassicurollo, facendogli mille protestazioni, che nulla erasi conchiuso a Cambrai che potesse riuscire svantaggioso alla sua repubblica, e ch' egli non prenderebbe mai parte in tutto ciò che potesse nuocere a' suoi antichi alleati. Lodovico XII aveva senza esitanza ratificato il trattato di Cambrai. Alberto Pio, signore di Carpi, ed il vescovo di Parigi, inviati a Massimiliano, ottennero altresì immantinente la ratifica di lui; nè più lungo tempo si fece desiderare quella di Ferdinando il cattolico, il quale, sebbene temesse la potenza degli stranieri in Italia e diffidasse egualmente di Massimiliano e dei Francesi, non sentendosi perd abbastanza forte per difendere i Veneziani, tenne per lo meglio di cominciare ad ingrandirsi a danno loro. L'odio che Giulio II aveva concepito contro i Veneziani veniva accresciuto da due nuove offese: essi avevano dato asilo ai Bentivogli, dopo l'espulsione di costoro dal Milanese, e di più il senato aveva ricusato di concedere l'immissione in possesso del temporale del vescovado di Vicenza al nuovo cardinale di San Pietro in vincoli, nipote del papa e da lui recentemente eletto vescovo di quella città. Pure Giulio II peritavasi più che gli altri confederati a ratificare il trattato di Cambrai. Bene ei si avvisava che questa lega accrescerebbe la potenza degli Oltremontani in Italia, mentre che era scopo de' suoi più ardenti desiderii il purgarla da coloro ch'egli chiamava Barbari. La sua didenza verso i Francesi veniva inoltre accresciuta dal suo odio contro il cardinale d'Amboise, ch'egli risguardava come colui che aspirava a succedergli, e di cui temeva le trame contro la propria sua vita. Aveva Giulio II sperimentato di recente, in occasione del tumulto di Genova, quanto poco i Francesi lo rispettassero, e non poteva senza timore accrescere ancora la loro preponderanza. Massimiliano non era meno formidabile alla Santa Sede, sia per le pretensioni che l'Impero aveva sempre avute sopra l'Italia, sia perchè, l'erede di lui essendo nello stesso tempo erede di Ferdinando, era cosa da temere gravemente che l'abbiatico di questi due principi, il quale doveva unire le due monarchie io allora rivali, aggiugnendo il regno di Napoli e la Marca veronese a tanti altri estesissimi stati, chiudesse da ogni parte la Santa Sede; la quale, ciò avvenendo, più sparar non poteva di conservare la propria indipendenza, laonde inutili diventavano tutti gli sforzi fatti da Giulio Il per riunire le smembrate provincie alla Chiesa. L'epirota Costantino Cominates trovavasi in allora a Roma ambasciadore di Massimiliano, che lo aveva in grandissimo favore. Il Cominates aveva avuto in altri tempi la tutela dei giovani marchesi di Monferrato, ed era stato in appresso cacciato dai Francesi da quel principato; laonde aveva contro di loro concepito grandissimo odio. Dopo essersi abboccato con Giulio II, il Cominates fu incaricato dal papa a parlare segretamente al ministro della repubblica in Roma, Giovanni Badoero. Egli andò a trovare il Badoero di notte, gli comunicò il trattato di Cambrai, di cui la repubblica non aveva ancora avuta contezza, e gli disse che se il senato volesse restituire al papa Faenza e Rimini, questi si scosterebbe della lega, e che il senato potrebbe ancora commetter male tra Massimiliano e la Francia, assecondando i progetti dell'imperatore sul Milanese. Queste pratiche furono immantinente dal Badoero comunicate al consiglio dei Dieci, il quale nello stesso toroo di tempo aveva da Milano avuto notizia del trattato. Il consiglio dei Dieci, prima di trattare col papa, volle tentare se di vero gli sarebbe venuto fatto di scostare l'imperatore dall'alleanza della Francia. Mandò pertanto a Massimiliano Giovan Pietro Stella, segretario del senato, colle più vantaggiose proposizioni. Ma questo inviato non seppe osservare impenetrabilmente il segreto; l'ambasciatore francese, informato della sua venuta, impedì ch'ei fosse accolto, e fece pure in appresso rimandare un altro negoziatore veneziano. Una nuova proposta di pace che Giulio II fece a Giorgio Pisani, secondo ambasciatore della repubblica a Roma, fu disdegnata da questo che era uomo burbero e d'aspra indole, e neppure la comunicò a' suoi signori. Finalmente la Signoria, dopo di avere lungamente consultato intorno ai mezzi di staccare il papa dalla lega contro di lei formata, fu dell'avviso proposto da Domenico Trevisani, vale a dire che cedendo alla Chiesa senza combattere ciò che questa a stento potrebbe ottenere colle armi si veniva a comperare a carissimo prezzo la neutralità di un debole nemico, e si dava in principio della guerra una troppo pericolosa prova di pusillanimità. Il papa, che aveva protratta fino all'ultimo giorno la ratifica del trattato, finalmente vi acconsentì; ma sotto l'espressa condizione ch'egli non si muoverebbe alla scoperta contro i Veneziani se non dopo che i Francesi avessero di già cominciate le ostilità. Vero è che le mosse di questi non dovevano più lungamente differirsi; Lodovico XII si era recato a Lione per affrettare la discesa delle sue truppe in Italia; il cardinale d'Amboise, che cercava ad ogni modo un pretesto per rompere l'antica alleanza colla repubblica aveva, in presenza di tutto il Consiglio, fatti acerbissimi rimproveri all'ambasciatore veneziano perchè i di lui signori facessero afforzare l'abbadia di Cerreto, nello stato di Crema, contro il tenore di un trattato, conchiuso dalla repubblica con Francesco Sforza il 29 aprile del 1454. Lodovico XII si faceva dare intanto per questa guerra, navi dai Genovesi, danaro e soldati dai Milanesi, ai quali stavano sul cuore le provincie del loro stato cedute dalla Francia alla repubblica di Venezia. Finalmente in sul cadere di gennaio la corte di Francia gittò al tutto la maschera; richiamò da Venezia il suo ambasciatore; rimando quello de' Veneziani, come pure il segretario della repubblica residente in Milano, e pubblico il suo bando di guerra. Per lo contrario Ferdinando il cattolico, tenace della propria perfida politica, fece dire alla repubblica ch'egli era entrato nella lega sottoscritta a Cambrai contro i Turchi, ma non in quella contro Venezia; che gli erano ignote le ragioni per cui Lodovico XII s'induceva ad assalire la Signoria, e che, per quanto stava in lui, era parato a prestare alla repubblica tutti i buoni uffici ch'ella aveva diritto di promettersi dalla sua affezione e dalla sua ricchezza Le ostilità erano già cominciate in riva all'Adda tra gli scorridori francesi e veneziani, allorchè l'araldo d'armi di Francia, introdotto in senato, denunciò la guerra a Leonardo Loredano, doge di Venezia, ed a tutti i cittadini di quella città, qualificandoli per uomini infedeli, che ingiustamente ritenevano le città del sommo pontefice e dei re, dopo averle occupate con ingiusta forza. Rispose il Loredano: che la repubblica non aveva mancato di fede a chicchessia, e che se ella non avesse con troppa fede osservati i suoi obblighi verso la Francia medesima, Lodovico XII non avrebbe in Italia tanto terreno da poter riporre piede. Dopo queste solenni protestazioni da ambedue le parti ad altro non si pensò che alla guerra. I Veneziani, sebbene assaliti da quasi tutta l'Europa, e senza alleati, non disperavano della salute pubblica. Purchè reggessero al primo assalto, essi non dubitavano che la lega non si sciogliesse entro pochi mesi: gli alleati erano mossi da troppo discordi interessi, e l'indole del papa e di Massimiliano era troppo incostante per non poter credere che lungo tempo essi perseverare volessero in un'impresa tanto contraria ad ogni sana politica. I Veneziani pensarono adunque a porsi in sulle difese ; le loro ricchezze, che ancora erano intatte, e la prosperità del traffico, non ancora scemato dai recenti progressi de' Portoghesi per le Indie, davano loro modo di accaparrarsi tutti i condottieri e di ragunare solto le insegne di San Marco il più fiorito esercito che abbia mai combattuto nelle guerre d'Italia. Ma queste ricchezze, in cui era posta tutta la loro forza, furono distrutte da tanti fortuiti accidenti, che pareva il cielo medesimo avesse aderito alla lega dei nemici della repubblica. Il primo infausto accidente fu l'incendio dell'arsenale di Venezia. La polveriera dell'arsenale scoppiò con orribile fracasso, mentre che il Consiglio stava adunato, e l'incendio di quell'antico, stupendo edifizio coprì la città intera di cenere e di brage. Alcuni disastri succedettero bentosto a quel primo. La fortezza di Brescia fu colpita da un fulmine, che ne spaccò le mura; una barca che portava a Ravenna diecimila ducati per pagare le truppe affondò; infine gli archivi della repubblica, che contenevano tutte le più preziose carte di lei, furono preda del fuoco. Queste replicate disgrazie non erano tanto dannose per sè medesime, quanto per lo sgomento funesto del popolo, che le risguardava come altrettanti funesti presagi. I Veneziani avevano tratto al loro soldo molti condottieri nati negli stati della Chiesa, fra i quali annoveravansi Giulio e Renzo Orsini, signori di Ceri, di cui portavano il nome, e Troilo Savelli. Questi condottieri dovevano condurre loro cinquecento uomini d'arme e tremila fanti, per le paghe de'quali avevano già ricevuto quindicimila ducati. Ma il papa fece comandamento a costoro, con minaccia delle più aspre pene ecclesiastiche e temporali, di rompere il contratto e dello stesso tempo di non restituire il denaro. I condottieri ubbidirono a quest'intimazione del loro sovrano. Mai nonostante l'assenza di costoro, i Veneziani avevano presso di Ponte Vico sull'Olio duemila e cento lance intere, il che vuol dire per ogni lancia quattro ed anche sei cavalli, millecinquecento cavalleggeri italiani, milleottocento stradiotti, diciottomila fanti di truppe assoldate, e dodicimila uomini di milizie. Niccolò Orsini conte di Pitigliano, aveva il titolo di capitano generale di quest'esercito e Bartolomeo d'Alviano, della medesima famiglia, quello di governatore. Stavano inoltre presso all'esercito, siccome delegati della Signoria, i due provveditori, Giorgio Cornaro ed Andrea Gritti; i quali avevano acquistata grandissima riputazione nelle negoziazioni e nelle armi. Tutti due erano stati nel precedente anno opposti a Massimiliano, l'uno nel Friuli, l'altro a Roveredo; e da quelle spedizioni erano ritornati carichi d'allori. Il re di Francia era già in procinto di assaltare la repubblica, mentre che gli altri confederati erano determinati a non muoversi se non dopo di avere giudicato dai primi avvenimenti della sorte della guerra. Perciò i Veneziani, destinando tutte le loro forze contro i Francesi, le avevano adunate in riva all'Olio. Colà due divisamenti di guerra, affatto contrari, vennero proposti dai due capitani dell'esercito. L'Alviano, che si era sempre segnalato con gli ardimentosi suoi disegni e colla somma sua prontezza nella loro esecuzione, voleva arrecare la guerra nel paese nemico prima che Lodovico XII avesse potuto ragunare tutte le sue forze, e divisava di giovarsi del malcontento che il governo francese aveva destato in tutta l'Italia, per ribellare ai Francesi il ducato di Milano, impadronirsi di tutto il danaro, e valersi di tutti gli uomini atti alle armi che aveva la Lombardia, invece di lasciarli in mano al nemico; indi assalire le schiere francesi, mano mano ch'elle scendessero dalle Alpi, prima che potessero fare la massa. Per lo contrario il Pitigliano, prudente generale, che nulla voleva lasciare in balia della sorte, ma che dall'Alviano era accusato di accoppiare alla timidità della vecchiezza quella ancora ch'era propria dell'indole sua; avrebbe voluto che non si pensasse nemmeno a difendere le terre della Ghiara d'Adda, che non erano di grande importanza; e che si lasciasse ammorzare o rintuzzare l'impeto francese negli assedii, tenendo intanto l'esercito nel campo trincerato degli Orci, di cui Francesco Carmagnuola e Giacomo Piccinino avevano conosciuta l'importanza nelle precedenti guerre. L'esercito, difeso in tale guisa dall'Oglio e dal Serio, doveva minacciare di colà le truppe che volessero assediare Cremona o Crema, Bergamo o Brescia, travagliare colla cavalleria leggiera, e avvicinarsi ancora alle medesime per toglier loro le vittovaglie, ma senza giammai abbandonare i luoghi fortificati. Questi due guerrieri divisamenti potevano arrecare di grandi vantaggi; ma, siccome quasi sempre accade allorquando le operazioni militari dipendono dalle deliberazioni de' Consigli civili, i due partiti estremi che potevano essere tutti e due pregevoli, furono rigettati per appigliarsi ad un partito di mezzo, di necessità cattivo. Coloro che consultano intorno a materie loro ignote, credono, secondo il detto del Necker, di porre il loro consiglio in sicuro quando il loro parere è discosto del pari delle opinioni estreme di due uomini dell'arte; e questo suggerimento dell'amor proprio riuscì fatale a molti stati. Il senato rigetto il consiglio dell'Alviano, come troppo audace, e quello del Pitigliano, come troppo timido; ma ordinò ai generali di condurre l'esercito in riva all'Adda per difendere la Ghiara d'Adda, loro prescrivendo nello stesso tempo di non venire a battaglia, quando non vi fossero costretti da urgente necessità o che loro non si presentasse una favorevolissima occasione. Il re di Francia avvicinavasi coi più bellicosi umori; egli desiderava di venire a battaglia il più presto che fosse possibile, sebbene tutte le sue trappe non fossero ancora in pronto; e cominciò tosto le ostilità acciò il termine dei quaranta giorni, dopo il quale il papa e l'imperatore dovevano assecondarla, cominciasse a decorrere. Per suo comando il Chaumont valico l'Adda presso Cassano, il 15 aprile del 1509, con tremila cavalli, seimila fanti e poche artiglierie, avviandosi a Treviglio, tre miglia stante dall'Adda. L'oste veneziana non aveva ancora lasciato Pontevico, ma Giustiniano Morosini, provveditore degli stradiotti, trovavasi a Treviglio col Vitelli di Città di Castello e con Vincenzo Naldi che comandava la valorosa infanteria dei Brisighella, assoldata in Romagna nel castello di questo nome.

La battaglia

Questi capi, credendo di non aver a fronte più che una piccola schiera di cavalleggeri, mandarono dugento fanti ed alcuni stradiotti per respingerli. Ma questi furono bentosto incalzati fino alle porte di Treviglio, ed i Francesi, che li inseguivano con ardore, appuntarono subito alcune artiglierie contro le mura. Lo spavento subentrò bentosto alla pristina baldanza, e gli abitanti di Treviglio costrinsero la guarnigione ad arrendersi. Il provveditore Morosini, il Vitelli e il Naldi furono fatti prigionieri con circa cento cavalleggeri e mille fanti. Solamente dugento stradiotti si salvarono colla fuga.

Le conseguenze

Lo stesso giorno i Francesi assaltarono ancora i confini veneziani da quattro altre parti, dai monti di Brianza fino alle vicinanze di Piacenza; ma dopo di avere in tal modo cominciata la guerra, tutte queste schiere si ritirarono , e il Chaumont torno a Milano per aspettarvi il re.