Battaglie In Sintesi
490 - 5 Marzo 493
La storia di questo condottiero, che primo ebbe in Italia titolo regio, è assai oscura per la scarsezza, il carattere frammentario, le contraddizioni delle fonti. Nato nel 434, di origine probabilmente Sciro e figlio di un Edico, che forse è tutt'uno con un personaggio di questo nome assai autorevole presso Attila, passò con un gruppo di guerrieri barbari, ancora in povero stato, per il NoricOdoacre In ltalia entrò ai servigi dell'impero ed è ricordato (472) al fianco di Ricimero nella lotta contro AntemiOdoacre Nel 476, quando le milizie barbare, che formavano la maggior parte dell'esercito romano, pretesero un terzo delle terre d' Italia ed ebbero un rifiuto dal patrizio Oreste, che reggeva l'impero per il piccolo Romolo Augustolo, Odoacre fu acclamato re dagl'insorti (23 agosto 476); Oreste fu ucciso a Piacenza (28 agosto), Paolo suo fratello presso Ravenna (4 settembre); Romolo Augustolo fu deposto e relegato con una pensione nella Campania, ultimo degl'imperatori romani d'Occidente. Quando mancasse uno dei due Augusti, la pienezza del potere, secondo la teoria dell'impero comune, rimaneva all'altro; perciò Odoacre, per dare un titolo legittimo all'autorità sua ancora non bene sicura, si rivolse all'imperatore Zenone, ritornato sul trono dell'Oriente dopo una sommossa che lo aveva cacciato e costrinse il senato a mandare a questo un'ambasceria, che dicesse basiante ai due imperi un solo imperatore e proponesse per reggere l'Italia Odoacre, chiedendo per lui quel titolo di patrizio, che di fatto aveva rappresentato nell'ultimo secolo l'autorità suprema in ogni ramo dell'amministrazione dell'impero; agl'inviati del senato Odoacre aggiunse altri suoi. Zenone, che non voleva né riconoscere la condizione nuova dell'Italia, né romperla in tutto con Odoacre, ostentò di considerare come imperatore dell'Occidente Giulio Nepote, che, spodestato da Oreste, si era creato un regno in Dalmazia, e rispose che a questo Odoacre doveva chiedere il titolo di patrizio; ma, scrivendo al barbaro, lo chiamò con tale nome, quasi egli ne avesse già ricevuto la dignità. Odoacre non assunse però mai il nome di patrizio e, dopo repressioni sanguinose, ormai sicuro del suo potere, non si curò d'altro riconoscimento giuridico Nelle monete coniate da lui, del resto di autenticità non sicura, egli non ha altro titolo che quello di Flavius, indice abbastanza comune di nobiltà romana, non di sovranità. Dei barbari Odoacre fu il re (riki), al modo dei Germani, il capo di uno stanziamento barbarico; nerbo dell'autorità sua e a lui più fedeli furono gli Eruli, ma nell'esercito erano Rugi, Turcilingi, Goti, e le fonti lo indicano come re ora di questi, ora di quelli, o più esattamente lo dicono rex gentium, re cioè delle popolazioni barbare stabilite in Italia: i due documenti dell'età sua, una scrittura presentata nel 483 a un sinodo romano e una donazione fatta da lui nel 489 di beni fiscali a un conte Pierio, lo chiamano praecellentissimus rex senz'altra indicazione. Tra questa accozzaglia di barbari venne distribuito il terzo delle terre; di quali terre e in qual modo non sappiamo con sicurezza, ma pare verosimile che, oltre ai latifondi, fossero divise le proprietà medie, se non le minori, stabilendosi un rapporto di hospitalitas fra l'antico possessore romano e il barbarOdoacre Certo i barbari, più densi probabilmente nell'Italia settentrionale, si diffusero per tutta l'Italia, formando nuclei compatti con loro capi e conservando le proprie costumanze; Odoacre, per assicurarsene la fedeltà, dovette profondere i beni e le rendite del fisco, riducendo questo all'estremOdoacre Del resto, egli mantenne l'amministrazione imperiale, pure attribuendo a funzionarî romani titoli di vicem agens o di consigliere proprio e intervenendo a dirigerne o a sospenderne l'azione quando gli piacesse. Ebbe con personaggi della classe senatoria relazioni cordiali e da alcuno di loro fu servito con fedeltà: appoggiò anzi, nel 483, almeno indirettamente, le pretensioni del senato romano a ingerirsi nell'elezione pontificale. E anche a uomini di chiesa, come a sant'Epifanio di Pavia e a san Severino, l'eremita del Norico, egli, sebbene ariano, dimostrò reverenza e ne accolse le preghiere in favore dei Romani; ma papa Gelasio si gloriò più tardi di avere resistito a quel "barbaro eretico", il quale ordinava "cose che non erano da fare". Non appare che ad aperta lotta fra O. e la Chiesa si venisse, e forse giovò a quello il conflitto che, dopo la pubblicazione dell'Henoticon di Zenone (482), era fra il papato e l'impero; ma la Chiesa vide in quello di Odoacre nulla più che un potere di fatto, oppressivo ai Romani e ai cattolici. Il quadro, che le fonti dell'età gotica fanno delle violenze e delle spogliazioni della "feccia" barbarica a danno dei Romani, può essere esagerato; ma certo il regno di Odoacre fu ben lontano da una salda compagine statale, anzi il disordine amministrativo e finanziario sembra essersi aggravato negli ultimi anni. Nella politica estera, egli ebbe dai Vandali la maggior parte della Sicilia, pagando tributo; lasciò a costoro le altre isole, e ai Visigoti la Provenza. Ucciso in Dalmazia Nepote (480), occupò la regione (481-82) per rendere impossibile una minaccia al suo regno da questo lato. Quando i Rugi, aizzati contro di lui dall'impero bizantino, invasero il Norico, condusse e mandò eserciti che li vinsero (487 e 488); il Norico fu però abbandonato e la popolazione romana trasportata in Italia. Federico, capo dei Rugi, fuggito presso Teodorico, poté spingere questo a tentare con i suoi Ostrogoti l'impresa d'Italia. Ma certo, più che la vendetta dei Rugi, mosse Teodorico la necessità di avere per i suoi nuove e migliori sedi, e mosse Zenone, a mandare Teodorico, il desiderio di levarsi d'attorno un pericoloso vicino. Odoacre raccolse da tutta l'Italia le sue genti; ma fu vinto all'Isonzo (28 agosto 489) e a Verona (30 settembre). Respinto da Roma, che gli chiuse le porte, abbandonato da Tufa magister militum e dalla maggior parte de' suoi barbari, si rafforzò in Ravenna: ricompostosi con Tufa, riprese l'offensiva e chiuse egli stesso gli Ostrogoti in Pavia; ma, discesi in favore di questi i Visigoti, fu costretto a ritirarsi, vinto sull'Adda (11 agosto 490), assediato in Ravenna, mentre per tutt'Italia infuriava la lotta fra i barbari. Costretto dalla fame, dopo lunga resistenza negoziò la resa per mezzo del vescovo (fine di febbraio 493) ed ebbe promessa d'aver salva la vita e di conservare alcuna parte del potere. Il 5 marzo Teodorico entrava in Ravenna; dieci giorni dopo, accusando Odoacre d'insidie, lo uccideva nel palazzo del Laureto: perivano con lui il fratello, la moglie, più tardi il figlio; per tutta Italia era fatta strage dei suoi. Non mancarono a Odoacre né abilità politica, né valore militare; ma certo egli fu impari al gravissimo compito che i primi suoi atti gl'imponevano. ll problema della coesistenza dei due popoli e della costituzione in Italia di un regno romano barbarico non sembra da lui, non che risolto, neppure affrontato.
Nacque intorno al 454 da Teodemiro, uno dei tre fratelli della stirpe degli Amali, che reggevano gli Ostrogoti, stabiliti allora nella Pannonia e nel Norico quali foederati dell'impero. A garanzia di un trattato, per il quale gli Ostrogoti si obbligavano a difendere le frontiere con un annuo stipendio, fu mandato (462) a Costantinopoli quale ostaggio. Qui acquistò una certa cultura, sebbene sia dubbio se sapesse scrivere, o se intendesse la lingua latina. Ma soprattutto conobbe i pregi e le debolezze della società romana e i segreti della politica imperiale, e affinò il suo senso politico. Ritornato da Costantinopoli (472), atteggiandosi a vendicatore dei Bizantini, vinse e uccise il re dei Sarmati, ma tenne per sé Singidunum (Belgrado), che questo re aveva tolto all'impero. Succeduto al padre per designazione di lui morente e per elezione del popolo (474), condusse i suoi nella Mesia inferiore (Bulgaria), ponendo sede a Novae (Sistova) sul basso Danubio. Combatté quì una lunga e varia lotta con un altro capo di Ostrogoti, Teoderico di Triario, detto Strabone, e, come questo, ebbe parte nelle contese che laceravano l'impero: aiutò anzi (477) Zenone a risalire sul trono e ne ebbe il titolo di patrizio e l'adozione a figliolo. E già forse dal 479, guardava all'Italia, occupata allora da Odoacre, e offriva a Zenone di ricondurvi lo spodestato imperatore Nepote. Non piacque a Zenone questo patteggiare col barbaro; e Teodorico rimase più anni ancora in Oriente, dove la morte di Strabone gli lasciava libero il campo, prima nemico di Zenone e devastatore dell'Epiro, poi protettore di lui, magister utriusque militiae, console (484), onorato del trionfo e di una statua innanzi al palazzo imperiale; e ancora ribelle, saccheggiatore della Tracia, minaccioso alla stessa Costantinopoli (487). Alla fine si trovarono d'accordo, Teodorico nel chiedere di essere mandato a combattere Odoacre e a "liberare" l'Italia, e Zenone nel consentire o nell'incoraggiare la spedizione; se il barbaro desiderava forse di vendicare la sconfitta dei Rugi, rivoltisi a lui contro l'assalto di Odoacre, e certo voleva per il suo popolo sede più stabile e, relativamente, più ricca della già devastata Balcania, non meno bramava l'imperatore di levarsi d'accanto un così pericoloso vicino. L'impresa fu deliberata dall'assemblea generale dei Goti, e partirono, negli ultimi mesi del 488, innumerae catervae, forse trecentomila, Ostrogoti per la maggior parte, con un forte nucleo di Rugi e nuclei minori di altri barbari, con donne, vecchi, fanciulli, carri, che servivano d'alloggio, suppellettili, arnesi da lavoro. Ma il rex delle gentes barbariche trasmigranti in Italia si presentava insieme come il patricius, cioè l'inviato dell'imperatore a restaurarvi le sorti della romanità. Vinti all'Ulca i Gepidi e i presidî posti qui da Odoacre, Teodorico disperse le milizie di questo all'Adda, e il passaggio del fiume (28 agosto 489) considerò come inizio ufficiale del suo dominio sull'Italia. Vinse ancora a Adda (30 settembre), dalla quale città, forse per il valore spiegato nella battaglia, ebbe il nome nella saga tedesca. Vide allora volgersi a lui i più dei Romani e darglisi la maggior parte delle stesse milizie di Odoacre, che si rinchiuse in Ravenna. Poi ebbe di nuovo contro a sé questi barbari e molti Romani, delusi forse i primi nella speranza di spartire con i nuovi venuti le terre italiane, già scontenti gli altri dei pretesi liberatori. Dovette allora ritrarsi a Pavia, in grandi strettezze; poi, con l'aiuto di una discesa di Visigoti, riprese l'offensiva, batté sull'Adda Odoacre (11 agosto 490), lo costrinse a chiudersi di nuovo in Ravenna, mentre infuriava per tutta Italia la guerra fra i barbari e calavano dalle Alpi torme di Borgognoni a predare. Quando Odoacre piegò, dopo tre anni d'assedio, Teodorico gli consentì di rimanere capo dei suoi soldati e dividere con lui il dominio dei Romani (fine di febbraio 494); ma, entrato in Ravenna (5 marzo), lo accusò di tendergli insidie e lo uccise (15 marzo 494). Tutti i parenti del vinto e i suoi comites, dovunque fossero in Italia, ebbero la stessa sorte; ai Romani partigiani di lui fu tolta la libertà di disporre dei loro beni; ma la dura sentenza fu mitigata per l'intervento dei vescovi di Pavia e di Milano, restando esclusi dal perdono solo i capi dell'opposizione. Ancora prima della resa di Ravenna, Teodorico s'era dato pensiero di precisare la base giuridica del suo dominio. E aveva mandato all'imperatore, o fatto mandare dal senato, Fausto Negro, uno dei primi dell'alta assemblea, a chiedere la "veste regia". Non ottenne il consenso dell'imperatore, forse perché non volle promettere a questo l'appoggio nella contesa religiosa che, dopo la pubblicazione dell'Henoticon di Zenone favorevole ai monofisiti (482), divideva l'Impero dalla Chiesa romana. Ma, dopo l'ingresso in Ravenna, fu, senz'attendere l'ordine imperiale, confermato re dai suoi Goti, riconosciuto cioè come legittimo rappresentante della sovranità sul paese conquistato; assunse allora il titolo di dominus e rivestì la porpora "come già sovrano dei Goti e dei Romani" (Jordanes, Get., 295). Fu quindi in conflitto più anni con la corte bizantina e tenuto da questa come "tiranno". Nel 498, per opera del patrizio Festo, seguì un accordo, per il quale l'imperatore rimandò gli ornamenta palatii, inviati già da Odoacre nell'Oriente, riconoscendo l'autorità personale di Teodorico Questi rimaneva in teoria subordinato, non sappiamo bene con quale titolo, all'imperatore. Ma in realtà egli pensava ormai distinte le due respublicae, l'orientale e l'occidentale; nell'imperatore non ammetteva altro primato fuor che morale, a sé attribuiva per volere divino quello stesso potere illimitato, che il diritto romano riconosceva all'imperatore, e qualificava il suo come Romanum imperium. La nomina dei consoli, dei patrizî, dei senatori era fatta da lui senz'attendere designazione o conferma imperiale; l'erario pubblico era confuso col tesoro privato del re. Se Teodorico non promulgò leggi, ma editti, non era però in questi alcun accenno al supremo potere legislativo dell'imperatore; le monete avevano bensì, quelle che noi conosciamo almeno, l'effigie imperiale, ma questo dipendeva soprattutto dalla necessità di assicurarne il corso nei paesi orientali, da cui gli occidentali dipendevano commercialmente. Del resto, medaglie commemorative, statue, iscrizioni salutavano Teodorico come solo dominus, un'iscrizione, anzi, come victor ac triumphator semper Augustus; Procopio scrisse ch'egli aveva titolo di rex, cioè di capo barbarico, ma di fatto era vero imperatore. Teodorico si vantava che il suo regno fosse copia dell'unico impero; venendo a Roma nel 500, promise al popolo di osservare le disposizioni prese in altri tempi dagl'imperatori e, come già questi, distribuì doni e offerse spettacoli; conquistata la Provenza, la disse restituita all'antica libertà, cioè alla sovranità di Roma. E conservò infatti le forme dell'antico ordinamento romano, con la gerarchia delle dignitates alla corte di Ravenna e nelle provincie, e diede, generalmente, a Romani le magistrature civili. Ma la romanità del linguaggio è attribuita al re barbaro da Cassiodoro Senatore e da Ennodio, ed è difficile dire fino a qual punto lo scrittore delle lettere del re e il suo panegirista ne interpretassero l'intimo pensiero. E alcune delle più alte magistrature civili, come quella di comes patrimonii, o amministratore del patrimonio regio, e di praepositus sacri cubiculi, o capo della casa del re, erano tenute non di rado da barbari; e il comitatus, raccolto intorno al re, poté avere l'antico nome di consistorium, ma era costituito in parte di Goti; e i saiones, anch'essi goti, rappresentavano l'ingerenza diretta del re in tutti i rami della pubblica amministrazione e non di rado si sostituivano, per volere di lui o per usurpazione, alle ordinarie magistrature; Roma stessa fu per un certo tempo sottoposta all'autorità eccezionale di un comes goto. La giustizia era amministrata in nome del re, giudicavano delle cause fra Romani cognitores romani secondo la legge; delle cause fra barbari i loro capi militari secondo le consuetudini barbariche, stabilendosi così un sistema di leggi personali, diverse da Romani a barbari e tra gli stessi gruppi di barbari. Nelle cause miste erano applicati gli editti del re, che avevano carattere territoriale e valevano ugualmente per barbari e Romani; nei casi non contemplati dagli editti, si può ritenere che fosse applicata la legge romana, adattandola alle circostanze nuove; giudicava tuttavia un comes goto, sia pure avendo al fianco un assessor romano, con intrusione dell'elemento militare nel campo della giustizia, la quale intrusione avveniva talvolta anche in casi di controversie fra soli Romani. E il re poteva poi, o per ricorso di una delle parti, o per iniziativa spontanea, avocare a sé la causa, assegnarla alla cognizione di giudici delegati, prescrivere che si desse sentenza non secondo legge, ma secondo equità, sospendere la procedura, cassare il giudizio. Ai Goti rimanevano tutti gli uffici militari, dai quali i Romani, in via normale, erano esclusi. E a loro, fino dall'inizio della conquista, era stato distribuito il terzo delle terre; e, da prima, sembra, solo quelle confiscate ai soldati di Odoacre; ma certo, almeno più tardi, furono soggette al vincolo delle tertiae anche le terre di privati romani, non nel senso che si venisse a un'effettiva divisione, bensì a un'assegnazione teorica di un terzo del fondo, alla quale corrispondeva il diritto di percepire un terzo dei frutti. La parte non assegnata ai barbari era poi colpita da imposizioni, che andavano di regola al fisco, ma potevano anche essere attribuite dal re a singoli personaggi goti, posti in relazione diretta col contribuente romano. Si costituivano a questo modo due società parallele e nettamente distinte; il re protestava di volere che esse convivessero in pace, mostrava anche di apprezzare la superiorità della civilitas romana sulla barbarie gotica; ma non pensava a fusione tra Romani e Goti e men che mai a romanizzazione dei Goti, né altrimenti concepiva le relazioni fra i due popoli, se non come quelle di un esercito di armati in mezzo a una popolazione senz'armi. E, anche se egli attribuiva a quelli la funzione di difensori della civilitas, nel fatto appariva, come è detto espressamente da Ennodio, che i barbari erano i vincitori e i Romani i vinti, i subiugati. Fu tuttavia l'età di Teodorico, in paragone a quella che la precedette e la seguì, età di rifiorimento economico, o almeno di arresto nella decadenza; la lunga pace permise la tranquilla coltivazione dei campi e la bonifica di terreni, specialmente nelle Paludi Pontine, onde ebbero incremento la popolazione rurale e la produzione agraria e diminuì il prezzo delle derrate, quantunque non manchino memorie di devastazioni di terre, di requisizioni forzate, di prestazioni coattive e gravose. L'industria e il commercio, posti sotto il diretto controllo dello stato e gravati da pesi, che l'arbitrio dei riscotitori aumentava, non ebbero invece alcun progresso sensibile. Anche la cultura romana diede allora un nuovo bagliore della sua fiamma inestinguibile. Il re provvide al restauro degli antichi edifici di Roma, costruì, con l'opera di artisti romani, edifici nuovi a Adda, a Pavia, soprattutto a Ravenna, dove innalzò la basilica, mirabile per i suoi musaici, che volle dedicata a Gesù Cristo ed è oggi S. Apollinare Nuovo, e il battistero ariano e il palazzo magnifico, ora interamente distrutto, e il mausoleo famoso per sua sepoltura. E, se non promosse direttamente le lettere, se anzi vietò ai suoi Goti di mandare i figli alle scuole, mostrò tuttavia favore a dotti Romani: Cassiodoro Senatore fu questore e per più anni segretario del re, console (514), maestro degli uffici (523); Severino Boezio, filosofo e scienziato, oratore e poeta, fu console anch'egli (510) e maestro degli uffici (522) e celebrò le lodi del re, al quale Ennodio di Pavia rivolgeva l'ampolloso suo Panegirico. Abile e per lungo tempo fortunata fu la politica estera di Teodorico Questo barbaro, che era vissuto nella giovinezza fra le armi e con le armi aveva acquistato l'Italia, non amò la guerra; anzi non trasse più la spada dal fodero, lasciando, ove occorresse, ai suoi generali di combattere per lui. Con l'Impero d'Oriente, dopo i primi conflitti, stette in pace, finché la necessità di assicurare le frontiere non lo obbligò nel 504 ad aggiungere alla Penisola, all'Istria, al Norico, alle Rezie, che formavano il regno fin dall'inizio, Sirmium, alla confluenza della Sava col Danubio, "limite antico d'Italia"; solo per questo affrontò una guerra con i Bizantini, che, risoltasi per terra con la vittoria dei Goti, si prolungò più anni per mare con devastazioni piratesche dei Greci sulle coste italiane, finché, intorno al 510, fu ristabilita la pace. Sulle gentes barbariche affermò la propria superiorità, come signore di Roma e d'Italia; ma la volle attuare per mezzo di relazioni di parentela, che stringessero intorno a lui i diversi re barbari: diede una figlia al re dei Visigoti e un'altra al figlio del re dei Burgundi, e una sorella al re dei Vandali, e una nipote a quello dei Turingi, e sposò egli stesso una sorella di Clodoveo re dei Franchi e accolse come figlio d'armi il re degli Eruli; per più anni apparve quasi capo di una grande federazione barbarica. Ruppe questo equilibrio di forze la guerra che Clodoveo, forse eccitato dall'imperatore bizantino, mosse al genero di Teodorico, il re dei Visigoti Alarico II, che fu vinto e ucciso a Vouillé (507). Teodorico mandò allora eserciti, che vinsero i Franchi ad Arles (509), riunì all'Italia la Provenza, alla quale diede amministrazione romana, e assunse dal 511 il governo della Spagna in nome del giovine nipote Amalarico, affidandolo a Teudis, "armigero" suo. Il dominio di lui era così notevolmente ampliato; ma il disegno suo, di legare a sé tutte le gentes, era fallito. Più tardi anche i Burgundi si staccarono dall'amicizia di lui, ch'ebbe scarso compenso nell'acquisto di una striscia di terreno a nord dell'Isère; e si staccarono i Vandali, senza che egli osasse nemmeno vendicare l'uccisione della sorella (523); lo stesso Teudis nella Spagna assumeva qualche atteggiamento d'indipendenza. Il re invecchiava; e la stessa continuità della dinastia non appariva sicura. Non avendo figli maschi, egli diede nel 515 in sposa la figlia Amalasunta a Eutarico, discendente degli Amali, ma vissuto nella Spagna, e ottenne a questo dall'imperatore l'adozione a figlio e la dignità di collega dell'imperatore stesso nel consolato per il 519, come a riconoscimento del suo diritto alla successione del re. Ma il carattere di Eutarico, assai ostile ai Romani, rendeva più grave la difficoltà di mantenere nel regno la convivenza pacifica di due società così diverse e provvedute di forze così disuguali: la parte più intollerante dei Goti guadagnava terreno, crescevano le violenze a danno dei vinti, né gli sforzi del re riuscivano sempre a impedirle o a punirle. La questione religiosa s'intrecciava con la politica. Ariano e re di un popolo ariano, Teodorico aveva rispettato la religione dei vinti, conservato i privilegi della Chiesa, accolto le preghiere di pontefici e di vescovi, tanto più che la madre sua Ereleuva era cattolica. Non s'era però astenuto dall'ingerirsi alcuna volta in questioni ecclesiastiche. Chiamato ad arbitro nella duplice elezione pontificale del 498, aveva dato dapprima giudizio favorevole a Simmaco, eletto dalla maggioranza, e da questo era stato accolto a Roma con grande onore (500). Ma, scoppiata poco dopo una nuova contesa per le accuse mosse a Simmaco da una fazione, che aveva per sé quasi tutto il senato e parte del clero romano, aveva citato a Ravenna Simmaco, mandato a Roma il vescovo di Altino come visitatore, convocato, con l'assenso di Simmaco, un sinodo; e, pure dichiarando che non toccava a lui decidere in materia ecclesiastica, aveva insistito perché questo pronunziasse un giudizio, e privato intanto il papa delle chiese e dei beni. E anche quando (23 ottobre 501) il sinodo, rimettendo la causa del pontefice al giudizio divino, lo aveva dichiarato quanto agli uomini libero dalle accuse e rimesso nella pienezza dei suoi poteri, il re aveva consentito che l'avversario di lui venisse a Roma ed esercitasse fra i tumulti le attribuzioni pontificali, e aveva atteso quattro anni prima di far restituire al pontefice le chiese e il patrimonio. Dopo d'allora, tuttavia, le relazioni fra Teodorico e la Chiesa di Roma e il popolo cattolico non erano state per più anni turbate; anzi il re, forse nell'intento di assicurare la pacifica successione nel regno suo, aveva cooperato alla fine dello scisma, che separava la Chiesa greca dalla romana (518). Ma questa riconciliazione, abbattendo la barriera che aveva diviso per più anni i Romani d'Italia dall'impero, portava quelli di loro, ch'erano più intolleranti del giogo barbarico, a vedere nell'imperatore orientale la sola speranza per la restaurazione della romana libertas e dava agli ariani più accesi, quale era Eutarico, buon pretesto per accentuare l'avversione, come alla stirpe, così alla fede romana. La morte di Eutarico parve riavvicinare Teodorico ai Romani: Boezio fu magister officiorum e due figli suoi consoli nel 522. Ma l'accusa fatta da Cipriano, un romano goticizzante, al patrizio Albino, di avere relazioni con l'imperatore orientale, coinvolse Boezio, che aveva preso le difese di lui, come d'altri Romani perseguitati dai Goti, e minacciò l'intero senato. Questo, intimidito, abbandonò alla propria sorte Boezio, che fu chiuso in carcere, probabilmente nel 523, sotto l'accusa di arti magiche e condannato per giudizio del senato alla confisca dei beni e all'esilio. La pubblicazione (523 o 524) di un editto dell'imperatore Giustino contro pagani, ebrei ed eretici, che erano esclusi dai pubblici uffici, anche se lasciava all'arbitrio dell'imperatore la sorte dei Goti, inaspriva la contesa fra ariani e cattolici. Teodorico pigliò le difese dei suoi correligionarî e, mentre allestiva una flotta col duplice fine di rendere l'Italia indipendente dal commercio bizantino e d'intimidire l'imperatore, costrinse il pontefice Giovanni I a recarsi a Costantinopoli, imponendogli di perorare la causa degli ariani. Le accoglienze assai onorevoli fatte al papa in Oriente (524-25) e l'insuccesso almeno parziale della sua missione accrebbero i sospetti del re, il quale si sfrenò ora a crudeltà; fece uccidere Boezio, che poté essere così considerato quale martire della fede, e il suocero di lui Simmaco, capo del senato; e tenne prigione a Ravenna il papa, che ben presto venne a morte (18 maggio 526) e fu venerato fin d'allora come victima Christi. Il re cercò d'imporre come successore persona a lui grata; ma contemporaneamente ordinò che le basiliche cattoliche fossero invase dagli ariani, mentre ai Romani era tolto fino l'uso del coltello. Morendo poco appresso, il 30 agosto 526, Teodorico raccomandò ai Goti di rispettare come re il piccolo nipote Atalarico, di amare il senato e il popolo romano, di placare l'imperatore d'Oriente e tenerlo propizio dopo Iddio. Egli riconosceva così il fallimento dell'opera sua, che non era riuscita a creare una tale realtà politica da rendere sicura, nell'accordo fra i due popoli e nella stabilità nelle relazioni con l'Oriente, la continuità della dinastia e del regno stesso dei Goti in Italia. Il giudizio assai diverso dato sopra di lui dai contemporanei, il contrasto tra le leggende cattoliche e romane, che lo fanno morire tra i rimorsi o essere rapito vivente dal demonio e precipitato nel cratere di Lipari, e la saga germanica, la quale canta il giusto e savio e prode Dietrich von Bern, sono prova non solo della divisione profonda tra Romani e barbari, ma della contraddizione, in cui si aggirò, inevitabilmente forse, ma certo vanamente, tutta l'opera di Teodorico.
Ravenna era in quel tempo fra le città d'Italia fortissima; perchè, stante la sua posizione, non era per assalto prendibile e la fame soltanto avrebbe potuto a lungo andare, costringere i suoi difensori ad arrendersi. Quantunque lontana dal mare poco più di tre miglia, essa era tuttavia circondata d'ogni intorno dall'acqua; chè non solo molte paludi le si stendevano per un buon tratto davanti, specialmente dalla parte occidentale, dove non esisteva che un ristretto argine per metterla in comunicazione coll'interno del paese, ma, in quelle parti dove non erano paludi, larghi e profondi canali condacevano fin presso alle sue mura le acque dei vicini fiumi. Il più importante di questi canali era la così detta fossa d'Ascone (Ascanio?), la quale, staccandosi dalla Padusa (Po di Primaro), correva da nord a sud per un tratto di circa sette miglia, indi si volgeva ad oriente e, dopo un corso di circa cinque miglia, giungeva a toccar Ravenna al suo lato settentrionale, poi piegava ancora a sud, tanto da bagnare il lato orientale della città e da ultimo, ripresa la direzione d'oriente, correva in questa diritta a metter foce nel mare. Tal fossa l'aveva fatta scavare Cesare Augusto, che primo aveva riconosciuta l'alta importanza dell'antica colonia dei Sabini. Nè fu questa la sola cosa da lui fatta per Ravenna. È noto com' egli le avesse fatto costruire un porto capace di contenere ben duecento e cinquanta navi da guerra; come presso a questo il numero delle abitazioni si fosse un po' alla volta a tale accresciuto da formar quasi una seconda città o piuttosto un castello, il castello di Classe, nel quale più tardi eran sorti sontuosi palazzi e magnifiche basiliche; come finalmente fra Ravenna e Classe si fosse formato un nuovo popoloso quartiere, il quartiere di Cesarea (Via Cæsarea), che, da Ravenna diviso per la fossa di Ascone, arrivava sino al fiume Alimone (Lamone). I successori d'Augusto avevano tutti, quali più quali meno, presa cura di Ravenna: fatta poi sede del governo, essa era stata anche con più sollecitudine munita di ripari e con nuovi palazzi abbellita, fra cui merita speciale menzione quello così detto ad Lauretum fattovi erigere dall'ultimo Valentiniano. In fine Odovacre aveva pensato, prima ancora che scoppiasse sul suo capo la tempesta, a renderne vieppiù valida la cinta di difesa. La comunicazione fra la città ed il porto, che ormai allora pel totale decadimento della marineria romana era grandemente deperito, aveva luogo soltanto col mezzo di barche, che ogni giorno nelle ore del flusso trasportavano le merci nel quartiere di Cesarea, dove erano i principali mercanti. Se Odovacre, dopo la battaglia all'Adda, vi si fosse chiuso dentro con tutte le truppe, che ancora gli rimanevano e non erano per numero spregevoli, sarebbe stato presto dalla fame costretto o ad arrendersi o a tentare d'uscirne ed aprirsi a viva forza o per sorpresa un varco attraverso ai nemici, per fuggire dall'Italia. Ma che i patiti rovesci non lo avessero ancora abbattuto a segno da togliergli qualunque speranza anche di una lontana riscossa, lo prova il fatto del non avere egli-tentato di fuggire dall'Italia dopo l'ultimo colpo ricevuto e dell' essersi in quella vece rivolto di nuovo verso il centro della penisola. Egli andò a Ravenna non già per farvisi assediare e finire, ma per incominciarvi una regolare lotta difensiva, durante la quale avrebbe avuto campo di riannodare le relazioni co'suoi partigiani in Italia e fors'anche coi popoli d'oltr'Alpi. Perciò egli prese seco in Ravenna soltanto quelle truppe, del cui valore ed attaccamento alla sua persona credeva di non poter punto dubitare e tali principalmente erano gli Eruli; le rimanenti distribuì come presidî nelle varie castella e città del territorio a Ravenna circostante; nello stesso tempo procurò di mandare nelle diverse parti d'Italia suoi emissari, perchè si adoperassero con ogni mezzo a fomentare l'avversione ai Goti.
Intanto Teoderico si avvicinava a Ravenna. Prima peraltro d'incominciare le operazioni contro di questa, egli prese le opportune misure, per costringere i luoghi dove Odovacre aveva messi presidî ad arrendersi, e ciò per togliere a quello ogni speranza di appoggio al di fuori ed a sè stesso il timore che quei presidî potessero, quando meno egli se lo aspettasse, sconcertargli l'impresa principale. Ciò fatto, s'accinse ad assediare la capitale d'Italia. Mise dei forti corpi d'osservazione in tutti quei punti per dove il nemico avrebbe potuto facilmente o uscire o ricevere ajuti di viveri; egli stesso col grosso dell'esercito si accampò davanti a Classe, pure, difesa da un forte presidio nemico, sull'orlo occidentale della famosa Pineta, presso al così detto ponte di Candiano, che in quel posto congiungeva le due rive della fossa d'Ascone. Odovacre, per molestare i Goti, fece frequenti sortite; ma niun importante fatto d'arme accadde fino verso alla metà di luglio del 491. Infrattanto tutta Italia era sottosopra. La nuova della giornata all'Adda e dell'assedio di Ravenna s'era sparsa celermente da un capo all'altro della penisola ed i partigiani del vincitore, ch'erano quasi dappertutto i più, deposto ogni riguardo, avevano incominciato a gridare che l'avaro tiranno era finalmente schiacciato e che non conveniva più oltre tardare a riconoscere come signore d'Italia il valoroso re dei Goti. Non però dappertutto venivano le loro parole applaudite e non sempre quelli che non le volevano applaudire tacevano; per cui in molti luoghi le passioni dei due partiti presero a manifestarsi, oltre che con violente parole, con fatti violenti, sicchè la sicurezza dei cittadini n'ebbe molto a soffrire. La provincia, nella quale i partigiani di Teoderico trovarono in sul principio un terreno tutt'altro che favorevole alla nuova dominazione, fu la Sicilia. Quegli isolani, sospettosi sempre d'ogni ordine nuovo di cose, si erano ormai adattati al governo di Odovacre, al quale anche erano grati, perchè sotto di lui non un pirata affricano s'era mostrato alle coste della loro patria; mentre che allora, per l'infierire della guerra sul continente, i Vandali avevano già dato segno di voler ripigliare l'antico uso. Teoderico avrebbe potuto far occupare militarmente le città più importanti dell'isola, essendosi nel frattempo arrese alcune delle castella da lui fatte assediare ed essendo per alcune altre imminente la necessità della resa; circostanza questa che gli permetteva di disporre delle truppe prima nell'assedio di quelle impiegate, e portava alle truppe stesse un rinforzo, perchè molti dei prigionieri venivano ad esse aggiunti. Ma Cesena e Rimini, i due luoghi che più gl'importava di prendere, non davano segno di voler cedere così presto: epperò ritenne miglior partito di rinforzare i corpi che assediavano quelle due città e cercare, se fosse possibile, di ridurre con altri mezzi i Siciliani a più miti consigli. Fra i più illustri personaggi, che, fino dal suo primo apparire in Italia, s'erano apertamente dichiarati in suo favore, trovavasi il senatore. Aurelio Cassiodoro, uomo assai potente per ricchezze; giacchè era il più ricco abitante non solo di Squillace, suo luogo natio, ma anche di tutta la provincia di Lucania e Bruzzi; potente per la fama de'suoi maggiori, giacchè suo padre aveva, imperante Valentiniano, coperte le cariche onorifiche molto di tribuno e notajo e sostenuta in compagnia di Carpilione, figlio d'Aezio, una difficilissima ambascieria ad Attila ; e l'avo suo, al tempo della prima comparsa dei Vandali sulle coste della Sicilia e dei Bruzzi, aveva con uomini da lui stesso assoldati respinti gl'invasori; potente ancora per le sue relazioni colle più rispettabili famiglie di Costantinopoli, essendo egli parente con quell'Eliodoro, che nello spazio di nove anni era stato due volte a capo della prefettura d'Oriente; in fine pratico già nell'amministrazione della cosa pubblica, perchè era stato, regnante Odoyacre, conte delle cose private e delle regie spese. A lui affidò Teoderico il difficile incarico di pacificare e di governare in suo nome la Sicilia: non lo lasciò peraltro senza di un valido appoggio, perchè, circa nello stesso tempo, conchiuse un trattato di amicizia con Gundamondo, secondo successore di Gizerico, dal quale s'ebbe la promessa che i Vandali non si sarebbero più accostati nè alla Sicilia nè a niun'altra terra italiana. Allora anche pensò che fosse giunto il momento opportuno, per annunziare in forma solenne all'imperatore Zenone che l'impresa potevasi ormai considerare come appieno riuscita e che quindi era tempo di stabilire quell'accordo definitivo, che nel patto del 487 era stato lasciato sospeso. A tale scopo mandò come suo oratore a Costantinopoli Fausto Nigro, uno dei più autorevoli senatori romani di quel tempo. Fausto lasciò l'Italia sul principio della primavera del 491; ma, quand'egli arrivò nella capitale d'Oriente, Zenone non era più. Il di lui successore, l'epirota Anastasio, ex-silenziario della corte, eletto per gl'intrighi dell'imperatrice vedova Arianna, da lui in seguito sposata, e incoronato agli 11 d'aprile; non fece all'italiano oratore buon viso, perchè non era punto d'accordo colle idee del re. Quelli peraltro non ritornò subito in patria; ma, spedite a Teoderico informazioni esatte intorno alle cose d'Oriente, si fermò a Costantinopoli, per non partirne, finchè non fosse giunto a compiere per intiero il proprio mandato. A Ravenna intanto, come già si è detto, niun fatto importante accadeva nè dall'una nè dall'altra parte. Persino, venuta l'estate, cessarono anche le piccole sortite degli assediati; per modo che i Goti vennero un po' alla volta nella convinzione che di dentro avessero ormai incominciato ad infierire le malattie e la fame e che quindi non fosse guari lontano il momento della resa e per tale convinzione smisero alquanto della primiera vigilanza. Era ciò appunto che voleva Odovacre, il quale non ad' arrendersi pensava, ma a sorprender e tagliare a pezzi in una volta i Goti tutti. Verso la metà di luglio, essendo la notte già inoltrata, egli uscì quieto quieto colla sua gente dalla città dirigendosi verso Classe. I Goti, che guardavano Ravenna da quella parte, furono senza difficoltà sorpresi e massacrati, e que'pochi, che riuscirono a fuggire verso il campo al ponte di Candiano, vennero con tanta celerità inseguiti, che, quando giunsero ai primi ripari di quello e dentro vi mandarono il grido d'allarme, era ormai troppo tardi. Nella parte del campo che guardava verso Ravenna tutti i Goti furono, senza che si potessero difendere, sgozzati, ed in quella terribile notte il disegno di Odovacre sarebbe forse intieramente riuscito, se non fosse stato il sangue freddo di Teoderico. Il quale, correndo da una parte all'altra dell'accampamento, potè in brev'ora riunire i suoi, alla meglio ordinargli e la carneficina mutare in una vera battaglia. A lungo fu combattuto e molti caddero d'ambo le parti: alla fine Odovacre fu ricacciato al di là dei ripari ed anche questa volta costretto a fuggire precipitosamente verso Ravenna. Egli ebbe anche nella fuga a soffrire perdite gravissime; perchè molti de'suoi soldati si annegarono nei corsi d'acqua a Classe ed a Ravenna frapposti; tra gli annegati fu pure il maestro dei militi Libila, che perdette la vita nel fiumicello Veiente. Odovacre non isperò più in altro che nel tempo e Teoderico rinforzò i corpi d'osservazione intorno a Ravenna. Durante l'ultima parte del 491 e la prima del 492 le cose andarono ogni dì peggiorando nell'assediata Ravenna in causa specialmente della scarsezza dei viveri, per la quale si era ormai giunti al punto di non acquistare un moggio (38 litri) di frumento se non pel prezzo favoloso di sei solidi (55 lire). Nel rimanente dell'Italia la causa di Teoderico andava intanto mettendo sempre più fonde radici e l'opera di Cassiodoro in Sicilia procedeva benissimo. Verso la fine d'agosto del 492 la guarnigione di Rimini si rendette e Teoderico andò in persona a prendere possesso della città. Avendo nel porto di questa trovate alcune grosse navi, ritornato per mare a Ravenna ancora ai 29 d'agosto, fece chiudere con quelle la così detta fossa del Palazzolo (fossatum palatioli), per la quale forse gli assediati erano fino allora riusciti a procurarsi di quando in quando dei viveri. Nello stesso anno e circa nel medesimo tempo accadde un altro fatto per Teoderico non meno importante della resa di Rimini. Tufa e Federico, non si sa dove nè come, riescirono ad eludere la vigilanza dei Goti ed a fuggire con un discreto numero di truppe verso le Alpi tridentine. Giunti però nella valle del medio Adige, o fosse che all'un di loro rincrescesse di abbandonare l'Italia e paresse meglio di tornare indietro, mentre all'altro importava: più che mai d'allontanarsene, e presto, o fosse altra cagione, fatto sta che i due soci non si trovarono più d'accordo e per questo non solo si divisero, ma in una località fra Verona e Tridento (Trento), vennero tra di loro a battaglia, nella quale Tufa ebbe là peggio e fors'anche rimase morto. Federico allora, credendo di avere abbastanza rimediato al suo primo tradimento, tornò, per mettersi di nuovo a disposizione di Teoderico. Nell'inverno le condizioni degli assediati si aggravarono oltremisura; ma eziandio gli assedianti incominciarono a sentirsi stanchi della triste vita, che da tanto tempo erano costretti a condurre; in una parola dall'una parte e dall'altra s'incominciò a desiderare fortemente di venirne una buona volta alla fine.
Con queste disposizioni si diede principio a trattare, essendo rappresentante di Odovacre il vescovo di Ravenna Giovanni. Fu stabilito che quelli rinunzierebbe a qualunque idea di signoria sull'Italia; che in coinpenso di ciò non soltanto avrebbe salva la vita, ma anche, dovendo però egli rimaner' sempre a Ravenna, godrebbe d'una parte delle rendite del regio patrimonio e potrebbe conservare intorno a sè quelli de' suoi conti che più gli fossero cari; che intanto, prima che i Goti entrassero in Ravenna, darebbe come ostaggio per la sincerità delle sue intenzioni il figlio suo Telane ed ai valorosi presidî di Classe e di Cesena ordinerebbe di arrendersi. È certo che si fece parola anche dei prigionieri ed è probabile che sia stata loro lasciata la scelta di rimanere in Italia uniti ai Goti o di ritornare ai paesi dond' erano venuti, come pare che abbiano fatto gli Eruli. Queste condizioni vennero d'ambe le parti accettate e stipulate il giorno 27 febbrajo dell'anno 493. Occupata Classe e avuta notizia della resa di Cesena, Teoderico, ai 5 di marzo, fece il suo ingresso trionfale in Ravenna. In quello stesso giorno prese possesso del palazzo ad Lauretum, depose la veste militare gotica e, senza punto curarsi di ciò che avrebbe detto Anastasio, il quale nessuna risposta si era ancora degnato di dare al senatore Fausto, indossò la veste romana e l'imperiale porpora, dichiarando di voler essere dagli Italiani chiamato, come lo era dai Goti, il re. Con Odovacre si comportò in sulle prime come sempre suole comportarsi il vincitore generoso col forte da lui debellato. Ma tale suo contegno fu di ben corta durata. Imperocchè, entrato essendogli nell'animo per le insinuazioni di taluni il sospetto che quegli insidiasse alla sua vita e per l'insistenza degli insinuatori essendosi il sospetto ingrandito, per diventare in fine salda convinzione, decise di liberarsi nel modo più spiccio dal temuto pericolo. Abitava Odovacre · co' suoi fedeli un quartiere della città e per impadronirsi di lui colla forza sarebbe stato necessario quasi un nuovo assedio o almeno un assalto, che certo avrebbe costata la vita a non pochi Goti. Il re si finse di lui sicurissimo ed un giorno lo invitò alla sua mensa. Odovacre, ignaro della triste sorte che lo aspettava, fors' anche nella sua innocenza sicuro, accettò l'invito. Nel bel mezzo del pranzo ad un cenno del re, egli venne circondato e spento. Nel medesimo giorno tutti quelli, che, in forza del trattato dei 27 febbrajo, egli aveva tenuti presso di sè, furono pure assassinati.