Battaglie In Sintesi
7 Gennaio 1896
Tenente colonnello, nato a Vicoforte (Mondovì) il 27 settembre 1846, morto alla battaglia d'Adua il 1° marzo 1896. Dopo aver preso parte alla guerra dell'Indipendenza del 1866, in Africa, nell'aspro combattimento di Agordat contro i dervisci, alla testa del 3° battaglione indigeni-eritrei, in un momento difficile fermò i soverchianti nemici meritando la medaglia d'oro. Nel combattimento di Coatit ebbe parte principale impedendo ai tigrini di Ras Mangascià il tentato aggiramento della destra italiana. Nella guerra del 1895-96, lasciato, dopo il combattimento di Amba Alagi, a trattenere gli Abissini entro il forte improvvisato di Makallé, tenne fermo contro le enormi schiere degli assalitori. Ridotto agli estremi, mentre si disponeva a far saltare il forte e a perire con i suoi fra le rovine, riceveva ordine di accettare le condizioni dell'assediante per una cessione del forte con l'onore delle armi e libertà di ritirarsi fra i suoi. Pochi giorni dopo, chiamato alla riscossa nel momento più disperato della battaglia d'Adua, fu travolto nella mischia e scomparve. Alla sua memoria fu decretata una seconda medaglia d'oro.
Imperatore d'Etiopia, Leone della tribù di Giuda, Negus neghesti (Re dei re), il prediletto di Dio. Sahle Mariàm, il futuro Menelik II era un uomo prudente, intelligente ed astuto. Non si diventa imperatore d'Etiopia se non si posseggono queste qualità. L'Etiopia non era solo un posto difficile per fare il re, ma era un posto difficile per sopravvivere. Già restare in vita durante e dopo il parto era un'impresa. La medicina, l'agricoltura, le infrastrutture erano come da noi ai tempi dei Longobardi. Figlio del re (ras) dello Shoa (una regione dell'altopiano etiope), il padre pur da feudatario, al fine di mantenere una relativa indipendenza del suo regno dal feroce negus Teodoro, ancora bambino lo cede come ostaggio alla corte del negus, che, però gli si affeziona. Menelik, anni dopo, mandato da Teodoro a domare una rivolta nello Shoa, invece ci rimane, riprendendo possesso delle terre del padre. Il negus Teodoro nel frattempo entrato in conflitto con gli inglesi, viene sconfitto e si suicida. Menelik consolida il suo regno ed inizia una politica di alleanze con le popolazioni limitrofe, i galla e gli egiziani, al tempo padroni del Sudan. Sposa nel 1883 Taitù Batùl4, figlia del ras del Semien. Riuscì a salvare il suo regno dalla conquista del nuovo negus Giovanni IV pur facendo atto di sottomissione. Approfitta poi nel 1889 della morte di Giovanni IV, sconfitto in battaglia dai dervisci sudanesi (oggi si definirebbero dei fondamentalisti islamici africani) per rafforzare ulteriormente il suo potere regionale unendo al suo regno i territori del Tigré e dell'Amara e diventando imperatore d'Etiopia. Fonda la capitale dell'impero, Addis Abeba (Nuovo Fiore). Capisce che per sopravvivere alle potenze coloniali non bisognava aggrapparsi alla propria orgogliosa diversità, ma modernizzare l'esercito con armi europee e avere un ruolo nella diplomazia. Riuscì a far entrare la sua nazione nell'organizzazione mondiale della Croce Rossa, la qual cosa politicamente valeva quanto una campagna militare vinta. Tenne rapporti diplomatici con tutte le potenze straniere europee e con l'Italia firmò il trattato di Uccialli che illuse l'Italia di una facile conquista dell'Etiopia facendone un protettorato, cosa che Menelik II non aveva nessuna intenzione di permettere. Tra i tanti segnali che il conte Antonelli avrebbe dovuto cogliere, se fosse stato meno ingenuo, e farci riflettere sui gusti e le ambizioni del fedele alleato che ci preparavamo a adottare alla stregua di un parente povero, vi è un episodio accaduto durante la cerimonia di incoronazione a negus di Menelik II. Tra le delegazioni invitate vi era anche quella della Liberia, unico stato indipendente in Africa oltre l'Etiopia. La Liberia era stata inventata da alcune società di antischiavisti che fecero ritornare in Africa dei neri riscattati a suon di dollari dai sudisti. Era una storia molto edificante, ma che poi virò molto male, perché gli ex compagni di sventura dello zio Tom, dopo aver baciato la terra degli avi, cominciarono a trovare insopportabili e troppo primitivi i fratelli africani. Con le tasche ben imbottite di dollari e leggere di umana solidarietà, si erano messi a fare i miliardari e i padroni, rendendo schiave le sfortunate tribù locali. La delegazione arrivata da Monrovia non stava nella pelle per la gioia di vedere un altro stato africano su cui non sventolava una bandiera europea. Il capo degli inviati incominciò con baldanza a leggere l'indirizzo di saluto al "nostro fratello negro Menelik". Un ruggito del monarca, che pure barcollava sotto il peso di scettri e mantelli preziosissimi come se fosse un altare, lo gelò. Il neoimperatore, urlando che lui era bianchissimo e che non era certo fratello di "quelle scimmie nere", li fece frustrare e buttare fuori dalla sala del trono.
Nell'ottobre 1895, dopo la campagna contro ras Mangascià il gen. O. Baratieri ordinò la sistemazione di Macallè a difesa quale baluardo avanzato contro un'invasione dell'esercito etiopico e a copertura di Adigrat, ove dovevano concentrarsi le forze italiane. Ai primi di novembre, il gen. G. E. Arimondi, comandante del Tigré, distaccò da Macallè, ove erasi stabilito col grosso delle forze a sua disposizione, una colonna comandata dal magg. P. Toselli con compito di osservazione. Ma nel combattimento di Amba Alagi, del 7 dicembre, contro le truppe di ras Makonnen, il maggiore Toselli rimase ucciso; il gen. Arimondi, che era partito da Macallè nella notte sul 7 per soccorrerlo, non poté far altro che raccogliere a mezza strada i pochi superstiti, arrestando l'inseguimento del nemico (combattimento di Aderà) e all'alba del giorno 8 rientrò in Macallè. Con la perdita della colonna Toselli, che riduceva notevolmente le forze a disposizione dell'Arimondi, sarebbe stato necessario ripiegare anche da Macallè, troppo distante da Adigrat (110 km.). Ma per varie ragioni fu invece deciso di mantenerne l'occupazione, lasciandovi un adeguato presidio, nella certezza che esso avrebbe se non altro ritardato (come infatti avvenne) la marcia del nemico verso la colonia e dato tempo di giungere ad Adigrat ai rinforzi necessari per prendere la controffensiva. Nel pomeriggio dello stesso giorno 8, il gen. Arimondi lasciava Macallè ritirandosi su Adigrat con tutte le truppe, meno quelle destinate a presidio del forte: circa 1350 uomini in tutto (1000 dei quali ascari) con quattro pezzi, agli ordini del maggiore Giuseppe Galliano. Il forte, costruito su un'altura ove già esisteva una chiesa (Enda Jesùs) era situato sull'orlo orientale della conca di Macallè e dominava il villaggio e il nodo stradale, ma era a sua volta dominato, a distanza di circa 1 km., dalle alture orientali e dal villaggio di Enda Jesùs, sito a SO. L'opera consisteva in un muro di cinta con tracciato difettoso, non ancora ultimato; nessuna sorgente o cisterna nell'interno (l'acqua veniva attinta all'esterno nel letto dei torrenti Mai Anestì e Mai Segabà, il primo in angolo morto e il secondo notevolmente lontano). Vi erano viveri per circa tre mesi, ma non vi era provvista di legna e foraggi. I lavori di completamento furono proseguiti alacremente fino alla fine di dicembre, approfittando dell'indugio del nemico. Nei dintorni furono incettati legna, foraggio e bestiame. Fu intanto ripreso lo scambio di messaggi col ras. Il 20 dicembre si seppe che questi si era portato con le sue truppe a Dolò in modo da tagliare le comunicazioni con Adigrat. Incominciava così il lento investimento del forte; il 5 gennaio, con l'arrivo dell'esercito del negus, che accampò nei pressi di Scelicò, l'accerchiamento delle posizioni italiane fu completo.
Il mattino del 7 gennaio si ebbe il primo attacco: vennero dapprima assaliti e, dopo vivissima resistenza occupati, il villaggio di Enda Jesùs e la ridotta di NE.; nel pomeriggio si svolse l'attacco principale, appoggiato dal tiro efficace delle artiglierie del negus appostate sulle alture di NE.: le orde nemiche avanzarono da ogni parte tentando l'assalto, specie contro il saliente Nord, ma furono sempre respinte con gravi perdite. Il giorno dopo un nuovo attacco fu sferrato dal villaggio di Enda Jesùs contro il saliente SO: il nemico ammassatosi nel vallone del Mai Anestì, in angolo morto, assaltò da breve distanza, ma fu respinto; più tardi un secondo attacco dal Mai Segabà contro il saliente Nord fu egualmente respinto; nel pomeriggio continuò intenso il fuoco d'artiglieria (circa 15 pezzi); nella notte un terzo attacco di sorpresa al saliente Nord fallì come gli altri; la giornata si chiudeva così vittoriosamente, ma purtroppo le due sorgenti erano ormai definitivamente perdute. Nuovi tentativi furono ripetuti il 9 e il 10 e finalmente l'11 fu lanciato l'ultimo attacco generale, ma gli eroici difensori non cedettero.
Seguirono giorni di calma, ma cominciarono a farsi sentire le privazioni e soprattutto la scarsità d'acqua; tuttavia si sapeva che ad Adigrat erano giunti molti rinforzi e si sperava in un'imminente avanzata delle nostre truppe al soccorso del forte. Sennonché in quei giorni era giunto al campo del negus un messo del governo italiano (il cav. Pietro Felter) il quale, in seguito alle trattative da lui condotte, la sera del 19 comunicò al Galliano l'ordine di sgombrare il forte; il presidio sarebbe uscito con armi e bagagli e con l'onore delle armi. Lo sgombro avvenne infatti il 21 e dopo pochi giorni i difensori di Macallè poterono raggiungere le linee italiane. Il negus si valse peraltro della marcia della colonna Galliano per coprire il movimento di fianco del suo esercito che, per la via di Hausién, si portò nei pressi di Adua, donde poteva minacciare di invasione la colonia, evitando la forte posizione di Adigrat occupata dalle truppe italiane.