Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia del Fiume Frigido

6-7 settembre 394

Il condottiero romano

STILICONE (Flavius Stilicho)

Uomo politico e generale. Era figlio di un valoroso vandalo, che sotto l'imperatore Valente aveva comandato un corpo di cavalieri germanici. La madre era probabilmente romana: San Girolamo lo chiama infatti semibarbarus. Ci è ignoto l'anno della sua nascita, ma si può assegnare al più presto al 360. Entrò molto giovane in un corpo scelto, probabilmente nei protectores, e vi fece regolare ma rapida carriera. Con Sporacio nel 383 si recò ambasciatore alla corte persiana: era il momento in cui Teodosio aveva bisogno di concludere la pace con la Persia per risolvere la questione gotica e per combattere l'usurpazione di Massimo in Gallia. Dalla sua missione Stilicone uscì con molto onore, il che lo rafforzò sempre di più nel favore di cui godeva presso l'imperatore, che gli diede in moglie la propria nipote Serena. Da quest'epoca comincia ad avere una posizione preminente alla corte di Costantinopoli. Sin da ora fu probabilmente comandante della guardia imperiale (comes domesticorum). Al comando supremo deve essere giunto verso il 392, ma già prima di esser magister militum fu di fatto tra i più importanti generali del suo tempo. Si distinse specialmente nella guerra contro l'usurpatore Massimo (388) e nella campagna del 391-392 contro i Visigoti. Quando Teodosio, nel 394, mosse nuovamente verso l'Occidente a combattervi Arbogasto ed Eugenio, Stilicone lo accompagnava e dopo la vittoria del Frigido venne con lui in Italia. Quivi il 17 gennaio 395 moriva Teodosio in Milano e Stilicone riceveva da lui la raccomandazione di tutelare i suoi figli e successori. Da questo momento l'ingegno e il valore di Stilicone, di tanto superiori non solo a quelli dei suoi pupilli, ma anche degli altri dignitarî suoi pari, sorretti dal consiglio e dall'opera di Serena, ne fanno l'arbitro quasi assoluto dell'Impero d'Occidente. Molto si è parlato dei lati negativi del suo carattere, soprattutto della doppiezza che si è creduto di scorgere nella sua politica, specialmente nei suoi rapporti con Alarico. È un fatto però che al suo lealismo verso la casa del gran Teodosio si deve forse se egli non afferrasse per sé o per i suoi discendenti il diadema.

La missione affidatagli da Teodosio fu da Stilicone intesa nel senso che l'unità dell'impero non avrebbe dovuto rompersi, ma Arcadio e la sua corte erano signoreggiati da uomini, nemici acerrimi di Stilicone, che in lui avversavano non tanto il nemico personale, quanto il protettore dei barbari annidati nell'impero e barbaro esso stesso. È una reazione romana e senatoria scoppiata dopo la morte di Teodosio alla sua politica filogermanica. A questa corrente, che a poco a poco doveva farsi strada anche in Occidente, Stilicone doveva finire per soccombere. Il primo sintomo d'una tale condizione di cose si ebbe appunto nella profonda separazione tra i due governi dell'impero che si verificò dopo la morte di Teodosio. L'occasione fu data dalla grande rivolta dei Visigoti. Teodosio li aveva sistemati su di una zona confinaria lungo il Danubio, nelle provincie di Mesia e di Dacia; un gran numero poi serviva nelle armate imperiali qua e là disperso. Nel 395 tutte queste masse si concentrano nuovamente ed acclamano re Alarico che, già distintosi sotto Teodosio, pretende ora un alto comando nell'Impero. Contro di lui accorre Stilicone, oltre che per difender la Pannonia e l'Italia minacciate dagl'insorti, anche per la convinzione che le due parti dell'impero dovessero agire come per l'innanzi con unità di piani e di strategia. Ma a Costantinopoli si era ben lontani da una tal concezione. A Tessalonica, dove si era collocato sbarrando la strada ad Alarico, che sempre più si vedeva costretto a ripiegare verso mezzogiorno, gli giunse l'ordine di licenziare immediatamente le truppe dell'armata orientale e di ritirarsi oltre l'Illirico con le truppe dell'Occidente. Un simile ordine era l'affermazione da parte della corte di Bisanzio che si voleva la secessione dall'Occidente: Stilicone non osò disobbedire, si affrettò ad eseguire l'ordine e si ritirò dall'Illirico (395). Non trascorsero però molti mesi che si dovette di nuovo ricorrere ai suoi servigi. Avendo infatti Alarico devastato orribilmente la Grecia ed essendo stato nel frattempo tolto di mezzo a Costantinopoli il più fiero nemico di Stilicone, Rufino, egli marciò col beneplacito dell'Oriente contro Alarico, che si trovava nel Peloponneso. Ma non essendo riuscito a schiacciarlo né ad impedire che i Visigoti si stabilissero in Epiro, cadde nuovamente in disgrazia e la rottura con l'Oriente fu ora completa e definitiva. Accusato di connivenza col visigoto, fu dichiarato a Bisanzio nemico pubblico e i suoi beni furono confiscati.

Da allora Stilicone perse ogni ingerenza in Oriente, ma in compenso si dedicò con più energia all'Occidente, dove poté affermarsi con più fortuna. Il giovanetto Onorio, al quale nel 398 aveva dato in moglie la propria figliuola Maria, era completamente sotto l'influsso suo e di Serena. Il governo e l'amministrazione interna, a cui Stilicone dedicò molte cure, tornano a suo onore. Curò il benessere del paese con il restauro di strade rovinate e di edifici cadenti. Represse le violenze e gli abusi di soldati, giudici ed esattori di tasse. Moderazione ed equilibrio, rispetto verso il senato, ancora in gran parte pagano, tolleranza verso i culti non cattolici e verso i pagani ispirano la sua politica religiosa. I pagani furono lasciati liberi di celebrare le loro feste, ad eccezione dei sacrifici, sempre proibiti, e si impedì l'invasione dei templi. Del resto egli fu quasi sempre impegnato in quelle guerre di gigantesca portata che si scatenarono negli anni che governò l'Occidente.

Ne apre la serie la rivolta di Gildone in Africa, che fu preoccupante per l'interruzione nei rifornimenti di granaglie (398). A questa seguirono le irruzioni dei Goti e d'altri barbari in Italia (invasioni di Alarico del 400, e di Radagaiso del 405), dei Vandali, degli Alani e di altri barbari nella Gallia (406-409), né mancarono le usurpazioni, principale quella di Costantino. Stilicone vinse Alarico con lunghe e geniali manovre a Pollenza (6 aprile 402), schiacciò a Fiesole Radagasio (primavera del 405); ma l'immane sforzo per difendere il vecchio centro dell'impero indebolì questo sempre di più, lasciandone necessariamente sguernite le frontiere fuori d'Italia. Così la Britannia e la Gallia furono quasi totalmente abbandonate a sé stesse; la buona fede dei Franchi, guadagnati alla causa imperiale dalla diplomazia di Stilicone, difese in un primo momento la Gallia dai Vandali, che premevano minacciosi sull'alto Reno; ma poi, visti inutili i loro sforzi, si unirono anch'essi agl'invasori della Gallia, in cui si videro irrompere, oltre a loro e ai Vandali, Burgundî, Svevi ed Alani. Con tutto ciò Stilicone non sembrò disperare e, mentre i suoi nemici gli muovevano le più gravi accuse e preparavano la sua rovina, egli meditava di servirsi di Alarico, al quale aveva sempre evitato di assestare un colpo mortale. Ma purtroppo l'opposizione stava ormai guadagnando l'imperatore stesso, ed era proprio forse con questo piano che Stilicone scopriva maggiormente il fianco ai colpi degli avversarî, dato che il suo contegno di fronte ad Alarico non era stato mai incontestatamente approvato, e ora si gridava apertamente al tradimento. La posizione di Stilicone si faceva perciò sempre più critica verso il 408, e varî elementi concorrevano alla sua rovina. Gli si rimproverava di aver provocato e reso insanabile il conflitto con l'Oriente; inoltre agli elementi più ortodossi poco piaceva la sua tiepidezza nelle questioni religiose. Era ancora l'odio da vario tempo accumulatosi contro i Germani e contro l'elemento militare. Stilicone si difendeva sempre come meglio poteva. Morta l'imperatrice Maria, diede l'altra sua figlia Ermanzia in sposa ad Onorio, al figlio Eucherio fidanzò la giovane ed intelligente sorella di Onorio, Galla Placidia; morto Arcadio nel 408, aveva già ottenuto il consenso dell'imperatore per recarsi in persona a Costantinopoli a regolare la successione. Si diceva ora che egli mirasse a soppiantare i Teodosidi e a collocare sull'Oriente, cinto del diadema imperiale, il figlio Eucherio. Un giorno tra le truppe romane di stanza in Ticinum, sobillate dai suoi nemici, scoppiò una rivolta, durante la quale furono massacrati i dignitarî suoi amici o creature. Egli si trovava a Bologna: le truppe germaniche a lui fedeli avrebbero voluto marciare sugl'insorti, decisione che egli non volle prendere. Si ritirò invece a Ravenna. Anche qui rinunziò ad ogni resistenza e si rinchiuse in un asilo. Ne fu tratto con false assicurazioni, e dopo un processo sommario giustiziato (22 agosto 408).

La genesi

Della storia e della condizione d'Italia sotto il governo degli imperatori romani, Volumi 1-2, Giovanni Battista Garzetti, Milano, 1838

L'imperatore d'occidente Graziano una volta raccomandati l'Illirico e la guerra ai Goti a Teodosio, tornò nel 379 in Italia e di là per la Rezia, la Massima de Sequani, e la prima Germania a Treviri, costretto a dare al suo viaggio tal direzione per le scorrerie che nella sua assenza gli Alamanni avevano fatto in quelle provincie. Ritornò l'anno seguente nell'Illirico attesa la malattia di Teodosio; ripassò poi nelle Gallie e dalle Gallie di nuovo in Italia, dove per le infestazioni dei Germani limitrofi alla Rezia al Norico ed alla Pannonia, soggiornò quasi di continuo, finchè la ribellione di Massimo lo richiamò nelle Gallie. Quella rivolta ebbe per quanto s'intende tale origine. I soldati romani che custodivano la Britannia, sdegnati contro Graziano per l'eccessivo favore ch'egli accordava ai Barbari, s'ammutinarono (383), ed elessero Imperatore Magno Clemente Massimo, il quale non sembra mai avere occupato alcun uffizio o comando di grande importanza. Costui possedeva le arti e le virtù necessarie per riuscire in tale impresa, e chi ne parla, anche dappoichè ei rovinò, lo descrive per uomo strenuo e probo, non crudele nè avaro, e in ogni altra cosa degno di lode fuorchè di aver invaso tirannescamente l'impero. Piccolo essendo l'esercito della Britannia, Massimo lo rinforza arruolandovi la gioventù di quell'isola, e sbarcato sollecitamente alla foce del Reno s'addentrò nelle Gallie, e sempre ingrossando tanto avanti marciò, finchè avuto a fronte l'Imperatore gli sedusse le mal contente legioni. Graziano per quest'abbandonamento ridotto a fuggire, s'avviò con pochi cavalli verso l'Italia, ma fu presto raggiunto e ucciso in Lugduno (25 Agosto 383), dopodichè, l'usurpatore ridusse a sua divozione le Gallie tutte e l'Ispania senza combattere.

La vedova Imperatrice Giustina, madre di Graziano, che coll'altro giovinetto figliuolo Valentiniano II (nato verso la fine dell'anno 371) si trovava in Italia, inizò allora a governare lo stato, e temendo che il tiranno non la balzasse in quel subito sbigottimento dal trono, s'affrettò d'indurlo all'accordo con l'offrirgli di riconoscerlo padrone dei paesi da lui occupati; al che, per non potere allora altrimenti, condiscese pur anche Teodosio. Non riuscì il governo di questa donna molto felice, e n'ebbe in gran parte colpa ella stessa, perchè essendo intollerante e ambiziosa turbò la quiete dei popoli per favorire gli ariani, e neglesse l'educazione del figlio onde restare padrona assoluta. Accadde durante la sua tutela un'irruzione dei Sarmati che fu felicemente repressa(384); mentre non andò cosi con quella di certi Alamanni venuti a saccheggiare la Rezia (anno 386); perchè ad isloggiarneli fu mestieri condurre Unni ed Alani, ed essendo questi corsi predando fino a confini dello stato di Massimo, escusarsi presso di lui e rimandare a casa i Barbari con grossi regali. Nè questo bastò all'orgoglio di Massimo; il quale minacciando di volerne fare vendetta obbligò l'Imperatrice a spedirgli una nuova ambasciata (anno 387). Ma ogni umiliazione fu inutile, perchè il tiranno credendo bastevolmente stabilito il suo regno , e vedendosi cresciuto di forze per le nuove leve, e l'assoggettamento di molti Germani occupò sul finir dell'autunno i passi dell'Alpi e calato in Italia, di questa e dell'Africa e della Rezia e del Norico quasi senza guerra si insignorì, perchè Valentiniano ricoverò frettolosamente a Tessalonica, e v'attese a sollecitare Teodosio.

Teodosio, oltre che obbligato a' figliuoli di Valentiniano il vecchio per l'impero che ne avea ricevuto, si era di recente (anno 386) imparentato con essi sposandone una sorella. Tentò egli dunque a favor del cognato la via de trattati, e per dare alla sua mediazione più peso si mise a radunare ed ingrossare l'esercito e ad approntare un'armata, onde assalire l'usurpatore per terra e per mare; ma l'esercito suo era malgrado ogni diligenza riuscito inferiore a quel del nemico, e composto per la maggior parte di Barbari tumultuariamente raccolti. Avendo Massimo fortificato con gran cura e guernito di opportuni presidj le Alpi Giulie, pensò l'imperator d'Oriente (anno 388) di penetrare in Italia per una via più spedita e meno difesa; e siccome i preparativi suoi facevano temer d'uno sbarco, credette Andragato, principale capitano di Massimo e quel desso che aveva preso e morto Graziano, di doversi mettere in mare egli stesso. Ma non pareva per questo al tiranno di essere da quella parte abbastanza sicuro, e perciò, ad oggetto di dividere le forze di Teodosio, ordinò che i suoi in luogo di tenersi a guardare le Alpi facessero in due corpi un'irruzione nella Pannonia. Teodosio, avvertito di tal movimento mutò subito piano; piombò quasi inaspettato addosso al nemico presso Siscia sul Savo e lo sconfisse; indi, voltosi con pari celerità contro quelli che erano venuti a Petovione, mise anche questi, sebbene con maggiore difficoltà, in pienissima rotta; e fattosi dietro a Massimo che con pochi fuggiaschi si rinserrò in Aquileja l'ebbe presto nelle mani e lo condannò al meritato supplicio. Spento il tiranno venne tutto il suo stato a dar divozione al vincitore, che usando moderatissimamente la vittoria si accontentò di far tornar le cose nello stato di prima, e d'annullare gli atti di Massimo. Rioccupato in tal modo l'impero, soggiornò Teodosio ancora per tre interi anni in Italia, attendendo a dar buon sesto a quelle provincie; indi, vedendo Valentiniano ormai giunto al ventesimo anno ed in istato da poter di per sé governare il suo regno, a lui lo rese senza nulla richiederne o nessuna parte ritenerne, e infine tornò nella sua capitale.

Il giovane Valentiniano passato dalle mani della madre in quelle del cognato Teodosio mostrò chiaramente, quanto impero egli avesse sopra di sè, quanto di generosità e di giustizia, quanto amore per i sudditi e quanto bene se ne potessero ripromettere i popoli. Assunto il governo sotto auspicj non meno lieti che gia il fratello Graziano, passò poco dopo la partenza di Teodosio nelle Gallie; ma ivi giunto trovò, che uscito la mercè del cognato da un pelago era entrato in un altro procelloso al pari di quello in cui avea fatto naufragio lo sventurato fratello. Tra i molti Barbari che sotto Graziano erano saliti in gran credito v'era Arbogaste, uomo per generosità, per valore e per le franche ed ardite maniere molto caro ai soldati. Distintosi nella guerra con i Goti e in quella contro l'usurpatore Massimo, si era, col suo zelo e colla perizia nelle cose militari, talmente fatto amar da Teodosio, ch'egli non dubitò di affidargli la riconquista delle Gallie, dove il figliuolo del tiranno, dopo la morte del padre, ancor si teneva, e di lasciarlo a Valentiniano come uno dei ca pitani più animosi e fedeli. Arbogaste, dopo aver vinto i ribelli e superato certi eserciti Franchi, si trovava tuttavia nelle Gallie rivestito del comando dell'armi, quando Valentiniano si recò dall'Italia in quelle provincie. Sia che Valentiniano offendesse la costui alterigia, deferendo poco ai suoi consigli, o che Arbogaste colla presunzione o con rimostranze libere e poco rispettose irritasse l'Imperatore, non andò guari che apertamente s'inimicarono; per la qual cosa Valentiniano determinò di togliergli la carica. Ma non avendo egli ancora stabilita la sua autorità nell'esercito mal gliene incolse, perchè il Barbaro gli stracciò in faccia il diploma, e siccome era potentissimo presso i soldati gli fece da questi negar l'ubbidienza e lo tenne quasi prigione nel palazzo di Vienna. Valentiniano meditò dapprima una fuga; indi ricorse presso il cognato, poi, vedendo il sottrarsi impossibile e il soccorso di Teodosio troppo tardo al presente bisogno, fece intavolare un accordo. L'audace Arbogaste allegando che certi cortigiani meditavano la sua rovina, dimandò minacciosamente che fossero allontanati; l'Imperatore resistette buon tempo con mirabil fermezza, finchè, non potendo più reprimer lo sdegno, vinto da giusta ira tentò di punire di sua mano cotanta arroganza; ma il Barbaro, aggiugnendo all'offesa lo scherno, insultò all'impotente sua collera, e lo fece di lì a poco strangolare, e per velare in alcuna guisa il misfatto sparse la voce che il giovine Augusto s'avea tolto da sè stesso la vita.

Onde procurare qualche credenza a tal diceria ed allontanare vieppiù ogni sospetto da sè, permise, contro il praticato da Massimo nell'uccisione di Graziano, che le sorelle ed i popoli piangessero liberamente l'estinto Imperatore e ne onorassero i funerali, e accordò che se ne trasportasse il corpo a Mediolano. Indi, non con l'intenzione di farsi vedere innocente, e quindi mostrando di non raccogliere alcun frutto dal suo delitto, ma solo per timor che i Romani non volessero ubbidire ad un Barbaro com'egli era, collocò sul trono un Eugenio, che già da grammatico e retore s'era da qualche anno messo a servire nella corte. Eugenio, lasciando al suo promotore la cura di provvedere a ciò che spettava alla guerra, ossia d'arrestare i Germani che minacciavano le Gallie, mandò sollecitamente un'ambasciata in Oriente, la quale avesse a giustificare lui e Arbogaste, e a far riconoscere a Teodosio, come era stato dopo la lagrimosa fine di Valentiniano, quale assunto all'impero(d'Oriente), e a richiedergli che lo riconoscesse come collega. La risposta dell'Imperatore Teodosio fu tale, che non dava nè speranza di rappacificamento, nè la toglieva; per questo il tiranno venne in Italia e l'occupò. Tentò pure d'insignorirsi dell'Africa, ma non pote perchè il comite Gildone, fratello di quel Fermo che si era ribellato al vecchio Valentiniano, andava volgendo in mente di farsela sua. Inclinando per questa nuova usurpazione le cose apertamente alla guerra volgevano, e più non si pensò che a far denari e soldati. Era Eugenio cristiano; ma visto che Flaviano prefetto del pretorio d'Italia e Arbogaste, suoi principali sostegui, eran pagani, e volevano interessare nella lor causa gli adoratori degli idoli, mossero il tiranno a permetterne il libero culto e a ristabilire in Roma l'altare della Vittoria; e coi loro oracoli l'affascinarono sì ch'ei fece guernire le sue frontiere di statue, le quali rappresentavano Giove in atto di fulminare chi v'appressava. Arse per ciò il piissimo Teodosio di doppio sdegno, ed eccitò nei popoli quell'ardente zelo da cui animato sentivasi pel cristianesimo. Raccolse da ogni parte truppe e assoldò Barbari su tutti i confini; conferì il comando delle legioni a Stilicone e a Timaso, e diede quello de' Goti ad Alarico il Balto ed a Gaina, e quello degli altri ausiliari a Saule e Bacuro. Eugenio pose alla guardia delle Alpi Giulie Flaviano, e ristette con Arbogaste nelle vicine pianure. Teodosio, poichè ebbe tutto disposto ed ammassato le genti, commise a Rufino il governo dell'impero d'Oriente e la cura dei figliuoli, già entrambi dichiarati Augusti e, partito da Costantinopoli sulla fine di Maggio del 394, attraversò con tanta celerità la Dacia, le Pannonie ed il Norico, che oppresse Flaviano nei passi che avea preso a guardare, e scendendo dall'Alpi trovò l'inimico che s'era messo a campo sul Frigido.

La battaglia

Della storia e della condizione d'Italia sotto il governo degli imperatori romani, Volumi 1-2, Giovanni Battista Garzetti, Milano, 1838

Qui, il 6 settembre, seguì la battaglia. Aspro ed ostinatissimo fu il conflitto e durò fino a notte molto avanzata. Tra i Teodosiani si segnalarono i Goti e quelli di Bacuro, il quale volendo rinfrancare la battaglia perì. Gravissima fu da entrambe le parti la perdita, ma quella di Teodosio apparve più grande e sensibile, perchè si dice che solo dei Goti ne restassero diecimila sul campo. Eugenio, credendosi aver finito la guerra ricompensò largamente capitani e soldati, e distaccò ancora la stessa notte il comite Arbitrione, acciò appostasse il nemico dai monti, e secondo se lo vedesse o volersi ritirare o tornare in battaglia, gli avrebbe tagliato la strada, o l'avrebbe investito alle spalle. Teodosio passò la notte tra grandi dubbi e timori, e i suoi lo consigliavano a dare addietro per rinfrescarsi di gente; lo trattenneva solo la ferma e viva fede ch'egli avea nel suo Dio; e anzi si narra che sul fare del giorno n'avesse una promessa di straordinario soccorso. Questa voce diffusa per il campo, e avvalorata da un soldato il quale asseverava d'aver veduto la medesima visione in cui l'Imperatore rianimava l'abbattuto esercito e lo rinvigoriva; per la quale alacrità delle truppe Teodosio risolvette di tornare a combattere.

Non erano appena ordinate le schiere, che si scoperse Arbitrione. Inevitabile parve in quell'istante la perdita, e l'Imperatore, siccome soleva nell'urgenza dei maggiori pericoli, si pose ginocchione ad orare. In quella occasione, ecco venire a lui messi del comite, domandargli grazia e perdono, e offerirgli di combattere per lui. S'accetta l'offerta, si scende nel piano. Rise Eugenio in veder cotanta baldanza in gente sconfitta pur jeri, e per abbellir la vittoria mandò un bando per l'oste, che ognun si guardasse d'uccider Teodosio, perchè voleva vederselo dinanzi vivo e legato mani e piedi. S'affrontarono con terribile ferocia gli eserciti. Surse nel primo scontro un impetuosissimo turbine, che percuotendo la faccia dei soldati d'Eugenio toglieva loro la vista ed ogni uso dell'armi. I Teodosiani, riconoscendo nella subita procella il soccorso del cielo, raddoppiarono gli sforzi, onde quelli d'Eugenio presto andarono in pienissima rotta, nè potè il valor d'Arbogaste arrestarli. Dieronsi allora a discrezione, e corsi ad Eugenio lo caricarono di catene e lo condussero al vincitore.

Le conseguenze

Della storia e della condizione d'Italia sotto il governo degli imperatori romani, Volumi 1-2, Giovanni Battista Garzetti, Milano, 1838

La testa del tiranno portata per il campo alta su d'una picca, ridusse a dedizione quelli che ancor combattevano, e la volontaria morte del disperato Arbogaste compiè ed assicurò la piena sommissione di tutto l'Occidente. Cosi tornò l'impero per l'ultima volta sotto un solo padrone.

Nulla ommise Teodosio onde mostrare ch'ei riconosceva la sua vittoria dal cielo, e sebbene per le fatiche sofferte nell'ultima guerra s'ammalasse d'idropisia, non per questo lasciò d'applicarsi con sommo studio a regolare le cose dell'Occidente; finchè aggravando nel male chiamò a Mediolano il giovine Onorio, cui destinava a regnare negli stati che già furono di Valentiniano II. Parve che l'arrivo di quell'amato figliuolo lo sollevasse non poco; ma sentendosi indi a non molto venir meno ogni giorno, confermò il perdono concesso ai partigiani d'Eugenio, e rimise ai popoli una gravezza imposta di fresco, poi raccomandò lo stato e i figliuoli a Stilicone, che aveva in certo modo aggregato alla propria famiglia con il dargli in moglie la nipote Serena, e morì con sentimenti di vera cristiana pietà (li 17 Gennajo 395).