Battaglie In Sintesi
10 Gennaio 1072
Tratto da: "Storia dei musulmani scritta da Michele Amari" - Vol. III, Michele Amari, Le Monnier, Firenze 1868
Gli stessi bisogni e impulsi che avevano spinto nell'Italia meridionale tanti cavalieri normanni agirono anche sull'animo del più giovane figlio di Tancredi d'Altavilla, Ruggero: egli giunse in Puglia quando il fratello Roberto Guiscardo, col farsene riconoscere conte a danno dei nipoti, aveva decisamente assunto il comando della guerra ingaggiata dai Normanni contro i Bizantini (1057). Ruggero fu mandato sul fronte calabrese, ove rivelò tale ardore d'animo, fierezza di carattere ed eroismo guerriero da convincere presto il Guiscardo ch'egli, capitano eccellente, difficilmente si sarebbe limitato a essere mero strumento dei suoi grandiosi disegni. Il che gli mostrò non una volta soltanto, quando cioè gli si ribellò con le armi in pugno e lo indusse a scendere a patti, l'ultimo dei quali stabiliva che metà della Calabria sarebbe stato effettivo possesso di Ruggero (1062). Suo primo titolo di gloria era stata difatti la liberazione di questa regione dall'inviso dominio bizantino, liberazione coronata con l'acquisto di Reggio e di Squillace nel 1059, dopo una campagna in cui l'indigenza dei primissimi tempi lo aveva costretto a ruberie brigantesche. Seguì la guerra per cui fu infranta la signoria dei musulmani in Sicilia. Imposta ai Normanni da gravi esigenze politiche, strategiche ed economiche, considerata come una crociata dal ridesto sentimento religioso del secolo, essa fu, per antonomasia, l'impresa di Ruggero Non che vi restasse del tutto estraneo il Guiscardo, a cui il papato aveva già riconosciuto l'alta sovranità sull'isola ancora soggetta ai musulmani. Assorbito dalla guerra in Puglia, egli si trovò al fianco di Ruggero solo nei primissimi scontri in Val Demone e, dieci anni dopo, nel 1071, all'assedio di Palermo. Fu all'indomani della resa di questa città che, a riconoscimento dei sacrifizî incontrati, a premio dei successi conseguiti, a sprone per l'ulteriore conquista, egli concesse a Ruggero l'isola, riserbando per sé, con gli accennati diritti sovrani, la metà di Palermo e di Messina. Sennonché ci vollero altri vent'anni perché la sottomissione della Sicilia potesse dirsi compiuta. Prima ancora della caduta di Palermo, le due battaglie di Cerami (1063) e di Misilmeri (1068), in cui Ruggero aveva con forze inferiori sbaragliato i nemici, avevano più che altro aperto delle brecce all'avanzata normanna nell'interno dell'isola. Ma poi i musulmani trovarono validi aiuti presso i loro correligionarî d'Africa; con imboscate e tradimenti ripresero posizioni perdute o tentarono resistenze accanite; trassero profitto dalle assenze di Ruggero, chiamato nei suoi possessi calabresi o in aiuto del Guiscardo, guerreggiante sulla terraferma. Contro tutto e contro tutti trionfò l'ardimento, la strategia, la chiaroveggenza del conte di Sicilia: le sue fatiche coronava la resa di Noto, ultimo baluardo musulmano nell'isola, nel 1091. Qualche mese prima, anche Malta e Gozo, in seguito a una fortunata spedizione, s'erano impegnate a riconoscerne la sovranità col pagargli tributo. Prode soldato in guerra, Ruggero fu altresì un abile politico. Le imprese avventurose, così care alla sua razza, non lo allettarono troppo: nel 1085, p. es., egli declinò l'offerta della Tunisia fattagli dai Pisani, che s'erano proposti di conquistarla. Sennonché, consapevole della propria forza e intelligenza, egli non tollerò eccessivi legami di sudditanza né limiti alla sua autorità. A lui che, alla morte del Guiscardo, era il più potente signore dei dominî normanni in Italia, ricorreva, nei suoi continui bisogni, per aiuti e consiglio il nipote Roberto, duca di Puglia; ma egli non lo soccorse se non a prezzo di quei territorî che il Guiscardo si era riserbato in Calabria e in Sicilia, onde un accrescimento, anche in sede teorica, della sua sovranità su tali paesi. Restauratore della fede cattolica in Sicilia e del rito latino in Calabria, destinò nelle diocesi siciliane, ch'egli aveva ricostituite senza la debita autorizzazione pontificia, vescovi di sua fiducia; e fu pago soltanto quando Urbano II, cedendo a un suo atto di energia contro un'anteriore designazione pontificia, conferì a lui l'"apostolica legazia" in Sicilia (1099). Pur tuttavia, dovendo organizzare uno stato nel quale varie erano le stirpi, le lingue, le leggi e le confessioni religiose, Ruggero s'ispirò a una tolleranza ignota ai suoi tempi; e così fu alieno da radicali innovazioni nella struttura amministrativa dei paesi sottomessi, né disdegnò la collaborazione degli uomini esperti che vi trovava; sol che richiese da tutti, dai nuovi sudditi come dai cavalieri normanni che lo avevano aiutato nelle sue imprese, fedeltà e disciplina. Alle sue direttive di governo si attenne il geniale Ruggiero II, unico figlio maschio restatogli e che gli era nato dalla terza moglie, Adelaide, della potente casa Aleramica. Le due precedenti consorti, Giuditta di Évreux ed Eremburga di Mortain, lo avevano reso padre di parecchie figlie, alcune delle quali vennero richieste in moglie da cospicui principi, poiché la fama della gloria e della potenza del primo conte di Sicilia aveva valicato i confini dell'isola. Morì a Mileto, sua dimora preferita, il 22 giugno 1101.
Fatto il colpo, Roberto avvia l'esercito a Palermo per terra; egli, per fuggire il caldo, segue in una galea, accompagnato da quaranta altre navi. Ruggiero, cammin
facendo anch'egli alla volta di Palermo, va a sopravvedere sue genti e sue cose a Traina. Ripigliato indi il viaggio, non lungi da Palermo gli intervenne che
precedendolo i suoi famigliari per apprestar le vivande, una gualdana (ossia una scorreria di cavalieri in territorio nemico) di dugento musulmani rapirono ogni cosa
ed uccisero la gente; ma furono non guari dopo, svaligiati e tagliati a pezzi dalla schiera del Conte.
Ci è occorso descrivere il sito di Palermo nel decimo secolo: nel centro il Cassaro, o città vecchia, bagnata, da maestrale a levante, dal porto che fendeasi in due
lingue; la Khalesa, cittadella tra la lingua orientale e il mare; i borghi intorno il Cassaro da ogni altra banda. I particolari dell'assedio che raccogliamo qua e là
negli scritti di Amato, di Malaterra, di Guglielmo e dell'Anonimo, e che tornan pure ad unico e chiaro disegno delle operazioni militari, non mostrano mutata la
topografia nella seconda metà del secolo undecimo; se non che gli spaziosi borghi di libeccio, mezzodì e scirocco-sembrano decaduti da lungo tempo e abbandonati del
tutto all'appressarsi del nemico. Discosto circa un miglio a levante, al posto dove giognea in quel tempo la sponda destra dell'Oreto e la spiaggia del mare, sorgeva
il castello, detto di Giovanni, dal nome forse d' alcun musulmano (Jahja) di che i Normanni fecero San Giovanni e mutarono l'edifizio in ospedale; onde le odierne
fabbriche sovrapposte a ruderi di varie età si chiamano tuttavia San Giovanni dei Lebbrosi. Il qual castello, evidentemente posto a difendere da gualdane nemiche le
ricche ville d'ambo i lati del fiume e gli approcci stessi della città, era stato probabilmente edificato o afforzato durante la guerra normanda; nè parmi inverosimile
che alcun altro ne sorgesse in altri siti dell' agro palermitano dove poi si notarono chiese, monasteri o palagi de' Normanni. Della popolazione palermitana in questo
tempo ignoriamo il numero al tutto; ma dobbiamo supporla menomata di molto, fin dal decimo secolo, per le vicende politiche, massime le emigrazioni del millesessantuno
e del sessantotto. Il numero degli assedianti possiamo congetturar solo dalla estensione del territorio sul quale dominavano gli Hauteville in Terraferma, da soliti
loro armamenti in altre imprese contemporanee, dalla guardia che scortava Roberto entrato di accordo nella città e dal numero delle sue navi notato dianzi. Un otto o
diecimila uomini, tra cavalli e fanti, parmi il maggiore sforzo che i Normanni abbian potuto condurre sotto le mura di Palermo.
Si avanzò primo Ruggiero dalla parte di levante per le falde de' monti, il dì appresso il raccontato scontro; occupò un sontuoso palagio e le ville dei contorni; le
saccheggiò; fece abbondante caccia di prigioni, i quali nulla sapeano del nuovo gioco, quando si videro cinti da un cerchio di cavalli e stretti e presi e venduti.'La
vanguardia apparecchiava per tal modo le stanze ai capi dell'oste: " Que' dilettosi giardini, scrive Amato, irrigati d' acque, ricchi di frutta; dove albergarono con
agi da principi, fino i cavalieri minori, proprio in un paradiso terrestre." Appresentatosi quindi al Castel Giovanni, e uscitogli incontro il picciolo presidio,
uccideva quindici cavalieri musulmani, ne prendea prigioni trenta, e, insignoritosi del luogo, vi chiamava Roberto, il quale indi sembra sbarcato lo stesso dì. Il
quartier generale, come or si direbbe, fu posto in quel castello e ultimato il disegno di assedio. Rimasevi Roberto capitanando i Pugliesi e i Calabresi dell'oste;
Ruggiero con le sue genti stanziò, come pare, dove or sorge la chiesa della Vittoria, a settecento metri dalla odierna porta Nuova, su lo stradone che ména a Morreale.
Talchè stando l'uno a ponente-libeccio l' altro a scirocco-levante e comunicando insieme, investivano la città, per più d' un terzo del suo perimetro, dal lato
meridionale. A greco l' armata chiudeva il porto. Le picciole forze navali che rimaneano a' Palermitani furonvi ricacciate, perdendo un gatto ed una galea.
Del rimanente s'era la città apparecchiata bene alla difesa; onde i Musalmani, stretti che furono nelle mura, per frequenti sortite, con varia fortuna sturbavano le
opere degli assedianti, con indefessa vigilanza si guardavano, con valore e ostinazione combatteano. " I particolari non ripeterò, perchè trovansi nella sola cronica
ritmica di Guglielmo: luoghi comuni che forse pareano corredo necessario delle Muse. Pur non passerò sotto silenzio un episodio narrato dall'Anonimo del duodecimo
secolo: che lasciando spesso i Palermitani le porte della città aperte, quasi sfida ad entrare, egli avvenne che un terribile cavaliere musulmano tornando in città
dopo avere uccisi parecchi Normanni, sostasse, sotto la porta rivolgendo pur la faccia a' nemici, quando un giovane guerriero, parente di casa Hauteville, adontato del
piglio minaccevole, spronò contro costui. E trapassollo fuor fuora con la lancia. Ma richiusagli la porta dietro le spalle, senza stare un attimo in forse, spinge
innanzi il cavallo in carriera disperata tra i Musulmani che il saettavano e gli davano addosso ed uscito illeso da un'altra porta, giugne tra' suoi mentre il piagnean
morto. La quale avventura da Tavola Rotonda ci parrà meno inverosimile se la supponghiamo seguita nella Khalesa, piccolo ricinto con quattro porte che s'aprian tutte
nel breve tratto dell'istmo. Grandi combattimenti non seguirono infino all'inverno, studiandosi invano i nemici ad offendere la città. Giugnean intanto aiuti
d'Affrica, di forze navali, com'e pare, e non molte." Già i principi della casa di Salerno, tediandosi d'una impresa che lor propria non era, ritornavano in
Terraferma, dove più lieto spettacolo che l'assedio di Palermo offriva papa Alessandro, consacrando la nuova basilica di Monte Cassino, il primo ottobre. E Roberto
impaziente chiedea rinforzi in Terraferma; tra gli altri, al rivale principe Riccardo, il quale gli promesse dugento lance capitanate dal figliuolo Giordano e sì
avviolle, ma le richiamò pria che passassero il Faro. Si disperava tanto della vittoria, che Riccardo collegatosi con la famiglia de' conti di Trani e con altri
antichi nemici di Roberto, osò assalire le costui terre in Calabria ed in Puglia. Il Guiscardo non si spuntò per questo dal suo proponimento, - sapendo bene che egli
avrebbe trionfato di tutti in Palermo.
In quel medesimo tempo (così Amato), era gran carestia nella città, mancando le vittuaglie, che non si trovava da comperarne. Era altresì grande pestilenza e
mortalità, per cagione de' cadaveri insepolti; ingombra la città di feriti, d'infermi, d'uomini fiaccati dalla fame, la debile mano dei quali più volentieri stendeasi
a chiedere la limosina che a combattere. E i maliziosi Normanni spezzavan del pane e lasciavanlo a pie delle mura. I Saraceni a venti ed a trenta correano a prenderlo.
E il secondo giorno que' posero il pane un po' più lungi dalla terra e gli altri a correre, a darvi di piglio, ad assicurarsi e più numero ne veniva. Il terzo dì poi i
Normanni messero l'esca più lungi, e quando i Pagani vennero fuori tutti, furon presi e tenuti schiavi o venduti in lontani paesi. Così il cronista, compiaciuto o
indifferente, non so. Pur si commove al narrare come mancato il vino nel campo di Roberto, ancorchè vi abbondassero, carni squisite, il duca e la moglie di acqua sola
si disselavano; il che, aggiugne, non potea fare specie a Roberto il cui paese non produce del vino; ma considera, o lettore, la nobile sua donna, la quale, a casa il
padre Guaimario, principe di Salerno, solea bere com' acqua fresca del vin chiaro e schietto!
Rincorò i Normanni il successo d'un combattimento navale provocato da' Palermitani quand'ebbero gli aiuti d'Affrica, disperando tuttavia di spidare il nemico da'posti
occupati nella pianura. Avvistosi de' preparamenti, Roberto apprestò anch' egli sue navi; nelle quali fece tendere intorno intorno le tolde de' teli di feltro rosso da
parare i sassi e le saette: e quel colore potea tornar a mente a' Normanni le imprese dei padri loro, i quali l' aveano reso terribile in sul mare, che la tradizione
nazionale lo serba fin oggi nelle divise militari d'Inghilterra e di Danimarca. Ancorchè si possa tenere più numeroso il navilio normanno che il musulmano, par avesse
disavvantaggio nella struttura non adatta alla guerra. Era questo d'altronde, dopo il fatto di Bari, il primo cimento navale dei dominatori normanni d'Italia; nè la
memoria era spenta di quelle armate che infin dal nono secolo uscirono dal porto di Palermo a desolare le spiagge meridionali della Penisola; nè non vedea Roberto che
una sconfitta sul mare l'avrebbe costretto a levare l'assedio per la seconda volta. Donde ai suoi disse ch'era uopo vincere o morire: li fece confessar delle peccata e
solennemente prendere l'eucaristia. Confortate di tal cibo, continua Guglielmo di Puglia, le fedeli turbe , Normanni, Calabresi, Baresi ed Argivi entrano in nave;
nè basta a spaventarli il suono degli strumenti, il tonante grido di guerra de' Musulmani. Si scontrano le armate; resistono i Siciliani e gli Affricani, finchè
sforzati da un cenno divino, voltan le prore. Qual nave fu presa, qual sommersa; là più parte si rifugge nel porto, chiudelo con la catena, e questa spezzano i
vincitori, e fan preda d'altri legni, a parecchi appiccan fuoco. Altro non dice il cronista; onde si vede che l'armata normanna, superate le prime difese del porto, fu
costretta a ritirarsi.
Minacciati tuttavia i Musulmani da quest'altra banda, scemati per le spesse morti, affranti dalla fame, dalla pestilenza, dalle fatiche, Roberto non differì l'assalto
generale. Aveva egli fatte costruire quattordici scale congegnate con artifizio che parve mirabile in quel tempo, o da innalzarsi a ragguaglio delle mura. Mandate
nottetempo sette delle scale a Ruggiero, va egli stesso a trovarlo; concertano gli ordini dell'assalto, i segnali e ogni cosa. Lo sforzo più grave fu affidato a
Ruggiero contro la fortezza principale, cioè là città vecchia, da libeccio; onde passava a quella parte il grosso dello esercito di Roberto. A greco dovea minacciare,
è non altro, il navilio. Roberto riserbossi uno stratagemma nel caso che fallisse Ruggiero: un colpo di mano su la Khalesa ch'avea mura più basse.
Presso a compiersi i cinque mesi d'assedio, il primo o un de' primi giorni dell'anno millesettantadue, al far dell'alba, il clamore che si levò nel campo di Ruggiero
facea correre precipitosamente i Palermitani a quelle mura. "I fanti nemici s'avanzano ratti; con frombole ed archi tiravano ai difensori in su i merli, quando i
cittadini, sortiti con grande impeto, spazzavano la turba nemica, inseguivano a piè ed a cavallo i fuggenti. Caricò allora la cavalleria normanda, ruppe a sua volta
gli assediati, ricacciolli in città, stringendoli sì gagliardamente sino alla porta,che già erano per entrare insieme alla rinfusa. Allo estremo pericolo, i Musulmani
calan giù la saracinesca ; serran fuori i loro fratelli, de'quali i Normanni, sotto gli occhi loro, tra il grido e il compianto, fecero un macello. E i Normanni a
ripigliar l'assalto delle mura. Adducono la prima scala ; già tocca a' merli: chi salirà? Si guardavano l'un l'altro negli occhi. Un Archifredo subitamente fa il segno
della croce e si slancia su pei gradini; due guerrieri il seguono, saltano sul muro, quand' ecco sfasciata e infranta la scala. Soli incontro a cento, andati in pezzi
gli scudi loro, gittaronsi giù dalle mura, e sani e salvi rimasero, al dir di Amato. Gli altri ch'eran saliti per altre scale furon anco respinti. Allenarono i
Normanni, si ritrassero. Avvicinandosi già la sera, parea fallito l'assalto. Ma alle eloquenti parole di Roberto, dice Guglielmo di Puglia e le mette in versi , ai
conforti, crediam noi, di Ruggiero e secondo il disegno già ordipato col duca, ritornarono pur i Normanni a piè delle mura: e i cittadini traeano tutti al posto
minacciato; sicuri di buttar giù ne' fossi un altra volta gli assalitori, non poneano mente alla Khalesa dove quel dì non avea romoreggiato la battaglia. Quando
Roberto, a un segno dato da Ruggiero, chetamente con trecento uomini eletti arriva, tra gli alberi dei giardini, alla Khalesa. Corrono in fretta con le scale ad un
muro difeso da poca gente; pria che venga aiuto dalla città vecchia, sbarattano i difensori, saltan dentro, spezzano la porta; ond' entra Roberto col resto de' suoi.'
La quale stava dietro l'odierno convento della Gancia, sur una piazzetta cui è rimaso il titolo della Vittoria, al par che ad una chiesa ove la tradizione addita, nel
primo altare a destra, gli avanzi della porta sforzata da Roberto ed un'immagine votiva. Ma accorrendo lì i cittadini quando si seppe entrato il nemico, seguì
disperata zuffa insino a notte; rimase tutto coperto di cadaveri il suolo; rimaserne padroni i Normanni, rifuggendosi nella città vecchia i Musulmani che camparono
alla strage. I Normanni intanto saccheggiavano le case, uccideano gli adulti, partivansi tra loro i fanciulli per venderli schiavi. La notte stessa il conte recò
rinforzia Roberto, esposto nella Khalesa, con un pugno di gente, alla vendetta degli abitatori non vinti della città vecchia. Furun indi messe guardie alle torri che
fronteggiavano quelle mura superbe. Parea che nuova battaglia fosse da combattere la dimane, e forse da ricominciare l'assedio.
La discordia de Palermitani abbreviò le fatiche a'nemici. Nella lunga notte che questi passarono afforzandosi nelle mura della Khalesa, le fazioni della città vecchia
disputavan tra loro se fosse da riprendere la battaglia. Vinse il partito avverso: la notte medesima mandò a dir a' Normanni che la città fosse pronta a sottomettersi
e dare ostaggi. Ed aggiornando, due capitani che avean preso il reggimento della città in luogo del consiglio municipale, si appresentarono con altri notabili a
Ruggiero per trattare i patti. Fermati i quali, Ruggiero entrava nella città vecchia; guardigno, accompagnato da valorosi cavalieri, sopravvedeva i luoghi, mettea
guardie ne posti più opportuni e ritornava a Roberto. Il quale al quarto di, solennemente recossi al duomo, preceduto da mille cavalli, accompagnato dalla moglie, dal
fratello, da' fratelli della moglie e da altri baroni. Smontano alle soglie, umili, compunti, lagrimando di tenerezza. Sgomberati i simboli musulmani, forniti i riti
della nuova consecrazione, l'arcivescovo, il greco Nicodemo, che soleva uficiare nella povera chiesa di Santa Ciriaca, celebrò la messa dinanzi a' vincitori
nell'antica chiesa, divenuta gidmi' dell'islam, rifatta or cattedrale col titolo di Santa Maria: e dotolla Roberto di entrate e di sacri arredi. Alcuno buon cristiano,
scrive il buon Amato, vi udì la voce degli angioli che cantavano dolcissimi Osanna; e il tempio talvolta apparve illuminato della luce di Dio, mille volte più
splendente che niun'altra del mondo.
I patti della resa variamente si leggono presso gli storiografi dei due rami sovrani di casa d'Hauteville. Guglielmo di Puglia verseggia che i Palermitani s'arresero,
salva la vita, e che Roberto non solo l'accordo, ma anco promesse di non far loro alcun male ancorchè fossero Pagani, e mantenne la parola, nè cacciò alcuno dalla
città. Amato, robertista anch'egli, parla di resa a discrezione.Il Malaterra, al contrario, afferma stipulato il patto che nessuno fosse sforzato a rinnegare la fede
musulmana, nessuno aggravato con nuove e ingiuste leggi. Più ciso l' Anonimo, contemporaneo di re Ruggiero, dice pattuite le medesime condizioni che si osservavano a'
giorni suoi. Delle quali se non abbiamo il testo, puossi tuttavia tenere per fermo che, oltre la tolleranza religiosa, i Musulmani di Palermo godessero la libertà e
sicurezza delle persone, il mantenimento delle proprietà, i giudizii tra loro secondo leggi musulmane e da' loro magistrati: nè egli è punto provato, nè probabile, che
fossero sottoposti alla gezia. Ma di ciò più largamente a suo luogo.
Ritornò per tal modo Palermo, dopo dugenquaranta anni, al nome cristiano, assai più splendida, vasta, popolosa, ricca, civile, ma bagnata di sangue e di lagrime; chè " il numero dei Saraceni che furono uccisi e di quei che furono presi e furono venduti, dice Amato, passò ogni esempio." Poco appresso Palermo, si diede a Roberto spontaneamente la città di Mazara, obbligandosi a pagare tributo. Impadronitisi della capitale musulmana , i Normanni che vedeano vinta, ancorchè non finita, la guerra, posero mano immediatamente al partaggio dell'isola. Roberto, intraprenditore principale dello armamento, condottiero dell'oste, e signor feudale, qual si tenea, degli Stati normanni di Terraferma, eccetto que' di Capua ed Aversa, Roberto si prese Palermo, si tenne Messina e il Val Demone. Ruggiero ebbe dal Duca, assentendolo tutto l'esercito, gli altri paesi di Sicilia acquistati o da acquistarsi; del quale territorio a lui rimanesse una metà, e l'altra metà fosse suddivisa tra Serlone nipote di lui e di Roberto, e Arisgoto di Pozzuoli, uomo di schiatta longobarda, qual sembra al nome, imparentato con casa di Hauteville. Se le cose rispondessero ai nomi in quel periodo di formazione dell'Italia meridionale, si vedrebbe netto l'ordinamento politico della Sicilia: il Duca di Puglia sovrano feudale, con due province serbate in demanio; il conte di Sicilia, gran vassallo, con altre province in demanio; e sotto di lui due principali suffeudatarii e poi tanti baroni minori dipendenti da costoro e altri direttamente dal conte, altri direttamente dal Duca.